Commento a Trib. Rimini 17 luglio 2014, n. 930/2014
Il caso.
Con atto notarile la signora Tizia ha venduto ai signori Caio e Sempronia una «porzione di fabbricato urbano, sito in Comune di Rimini fraz. Miramare (…) già locato all’acquirente e precisamente: un negozio con antibagno e WC posto al piano terreno (…); con l’uso esclusivo e perpetuo della porzione di area antistante il vano ad uso negozio, per una larghezza pari al fronte dello stesso e per una profondità delimitata da Viale Oliveti. Detta area è coperta da una veranda che risulta individuata nella suddetta planimetria di variazione sopra allegata».
Alessandro Torroni
Nel periodo antecedente alla vendita, il negozio era già stato concesso, con contratto di locazione stagionale, alla signora Sempronia. I coniugi Caio e Sempronia, in forza del contratto di locazione, avevano edificato, sulla citata area antistante, una veranda per la quale era stata presentata, a nome della signora Tizia, in qualità di proprietaria, domanda di condono edilizio.
A latere dell’atto di compravendita del negozio veniva sottoscritta tra le stesse parti una scrittura privata che regolava le conseguenze per le parti del mancato rilascio del condono edilizio: in particolare, si precisava che la domanda di condono era stata presentata formalmente dalla signora Tizia, quale proprietaria dell’area sottostante, ma che la proprietà della costruzione sovrastante spettava a chi l’aveva edificata; di contro, qualora l’amministrazione comunale avesse negato il rilascio della concessione in sanatoria, i signori Caio e Sempronia, si impegnavano a procedere alla demolizione della costruzione e si accollavano tutte le conseguenze del mancato rilascio della concessione in sanatoria. Nel corso degli anni i coniugi Caio e Sempronia svolgevano la propria attività commerciale nei locali e provvedevano a modificare parzialmente la veranda.
Dopo la morte della signora Tizia, i figli, eredi legittimi, convenivano in giudizio i coniugi Caio e Sempronia chiedendo di accertare la nullità della clausola che concedeva un uso esclusivo e perpetuo dell’area antistante al negozio poiché «contraria all’ordine pubblico per perpetuità dell’obbligazione personale o reale» e di condannare i convenuti alla restituzione dell’area e della tettoia della quale asserivano di essere divenuti proprietari.
L’interpretazione della clausola con cui è stato concesso un uso esclusivo e perpetuo.
Il Tribunale si è trovato a dover interpretare la clausola con cui è stato concesso l’uso esclusivo e perpetuo dell’area, al fine di stabilire la natura del diritto concesso ai convenuti. Ed ha fatto ricorso, come dichiarato espressamente in motivazione, al criterio di cui all’art. 1362 c.c. della comune volontà delle parti ed in particolare alla formulazione letterale del contratto ovvero alle parole ed espressioni usate nel contratto stesso.
Sulla base del solo criterio letterale, il Tribunale ha ricondotto il diritto attribuito ai convenuti all’istituto dell’uso esclusivo di cui all’art. 1021 c.c. in base al quale «Chi ha il diritto d’uso di una cosa può servirsi di essa e, se è fruttifera, può raccogliere i frutti per quanto occorre ai bisogni suoi e della sua famiglia». Al diritto d’uso si applicano le norme compatibili in tema di usufrutto (art. 1026 c.c.). Con l’espressa precisazione, contenuta nella sentenza, quale ulteriore elemento a supporto dell’interpretazione puramente letterale, che anche nel periodo della locazione l’area antistante il negozio era stata concessa in uso al conduttore, e non in locazione.
Quindi il Tribunale ha escluso che il diritto riconosciuto ai convenuti potesse essere qualificato come diritto di proprietà, stante la diversa formulazione letterale dell’atto di vendita avente ad oggetto, da una parte, il diritto di proprietà sul negozio e, dall’altra parte, il diritto di uso esclusivo e perpetuo sull’area antistante il negozio. Ha escluso, inoltre, che il diritto potesse essere qualificato come diritto di superficie mancando una volontà espressa in tal senso, poiché nel contratto «non si prevede il diritto a mantenere la propria veranda sul suolo altrui, ma si concede il diritto di utilizzare il suolo altrui, sul quale, per inciso, insiste la veranda».
Dopo avere qualificato il diritto attribuito ai convenuti come diritto d’uso ex art. 1021 c.c., il Tribunale ha ritenuto che la clausola in esame, con cui è stato attribuito ai convenuti un uso esclusivo e perpetuo, costituisca una violazione di legge «dato che il patto contenuto nell’atto di vendita è evidentemente incompatibile con la temporaneità del diritto d’uso». Com’è noto, al diritto d’uso si applica la disposizione di cui all’art. 979 c.c., in tema di usufrutto, secondo la quale la durata del diritto non può eccedere la vita dell’usufruttuario. Conseguentemente il Tribunale ha dichiarato la nullità del patto di uso perpetuo.
La proprietà della veranda.
La seconda questione rilevante su cui si è pronunciato il Tribunale è la proprietà della veranda. Il Tribunale ha escluso che la veranda appartenesse al proprietario del fondo, sulla base della disciplina delle addizioni operate dal conduttore ai sensi dell’art. 1593 c.c. Ciò in quanto l’area sulla quale è stata costruita la veranda non era stata concessa in locazione ma in uso. Secondo la sentenza in commento, «il diritto di proprietà di una veranda edificata sul terreno del quale si ha godimento “in uso” non è affatto incompatibile con il diritto di uso stesso». Il diritto di mantenere la struttura sul suolo altrui sarebbe una delle possibili facoltà ricomprese nel diritto di uso, con la conseguente applicazione della disciplina dei miglioramenti e delle addizioni effettuati dall’usufruttuario di cui agli articoli 985 e 986 c.c. In effetti, il richiamo agli articoli 985 e 986 c.c. è stato solamente nominalistico perché la sentenza non ha applicato la disciplina conseguente che prevede il diritto dell’usuario di togliere il manufatto, qualora ciò possa farsi senza nocumento della cosa, oppure la facoltà del proprietario di ritenere le addizioni corrispondendo all’usuario un’indennità. Al contrario la sentenza ha riconosciuto tout court la proprietà del manufatto all’usuario su suolo altrui, in contrasto con la disciplina richiamata che prevede i) la rimozione del manufatto da parte dell’usuario oppure ii) il riconoscimento della proprietà del manufatto al proprietario del suolo, secondo i principi generali in tema di accessione, con il pagamento dell’indennità all’usuario che ha realizzato il manufatto.
Osservazioni critiche sull’interpretazione della clausola.
Il Tribunale ha interpretato la clausola con cui è stato concesso l’uso esclusivo e perpetuo dell’area antistante il negozio, sulla base del solo tenore letterale della clausola, come costitutiva del diritto reale d’uso di cui all’art. 1021 c.c., sanzionandola con la nullità per contrarietà a norma imperativa stante l’essenziale temporaneità del diritto d’uso che non può eccedere la vita dell’usuario.
Nell’interpretazione della citata clausola contrattuale, anziché limitarsi al mero dato letterale, sarebbe stato opportuno porsi alcune domande.
- È certo che la signora Tizia, che ha concesso il diritto d’uso sull’area, fosse proprietaria dell’area antistante il negozio? Oppure è possibile che anche la signora Tizia, come i suoi danti causa, fosse titolare esclusivamente del diritto d’uso dell’area?
- L’area antistante il negozio, sulla quale insiste la veranda, sembra avere indubbia natura pertinenziale rispetto al negozio del quale costituisce un accessorio, come è confermato dal fatto che i conduttori hanno realizzato sull’area un manufatto posto al servizio del negozio.
- La clausola con cui è stato concesso l’uso esclusivo e perpetuo dell’area antistante il negozio è il frutto di una espressa e singolare specifica pattuizione del caso concreto oppure è una clausola ricorrente nella prassi immobiliare e nei regolamenti di condominio?
- Esiste in dottrina una ricostruzione teorica che offra una compiuta sistemazione giuridica alla clausola di uso esclusivo e perpetuo, peraltro diffusa nella prassi notarile?
La dottrina si è interrogata da tempo sulla ricostruzione teorica della clausola, utilizzata dalla prassi immobiliare, con cui si concede ad una singola unità immobiliare l’uso esclusivo di un’area, di solito adibita a cortile o posto auto. È stato evidenziato[1] che siffatti diritti non possono essere qualificati come diritti reali d’uso ex art. 2021 c.c. L’“uso” ex art. 1021 e ss. c.c. si estrinseca nel diritto, per il soggetto titolare, di servirsi di una cosa (e, se fruttifera, di raccogliere i frutti) per quanto occorra ai bisogni suoi e della sua famiglia, e quindi è molto circoscritto come ambito soggettivo. Inoltre, il diritto d’uso non si può cedere o dare in locazione (art. 1024 c.c.); la durata del diritto non può eccedere la vita del titolare, se persona fisica, o trent’anni, se persona giuridica (art. 979 c.c. richiamato dall’art. 1026 c.c.). Ne deriva che, in molti casi, il termine uso esclusivo attiene più alla destinazione del bene che alla qualificazione del diritto[2].
Secondo l’interpretazione che ne ha dato la dottrina che si è occupata dell’istituto[3], le aree su cui viene concesso un diritto di uso esclusivo a singoli condomini mantengono formalmente la natura di parti comuni condominiali ma viene attribuito alle singole unità immobiliari un diritto reale che consente ai proprietari delle stesse di utilizzare più intensamente le aree asservite. Un tipico esempio di uso esclusivo riguarda le aree antistanti i negozi le quali, pur rimanendo condominiali, vengono date in uso esclusivo, durante l’apertura degli esercizi commerciali, per il parcheggio dei clienti[4]. Siffatto diritto reale è inquadrabile tra le servitù prediali, integrando un vantaggio a favore del negozio ed un peso a carico delle altre unità immobiliari del fabbricato, e in particolare a carico delle aree antistanti i negozi che, pur mantenendo la qualifica di parti comuni condominiali, risentono dell’uso più intenso attribuito ai titolari dei negozi. La servitù instaura un rapporto duraturo tra il fondo dominante ed il fondo servente che comporta il subentro automatico degli aventi causa nella medesima situazione giuridica ed in particolare nel diritto per il titolare del fondo dominante (il negozio) di esercitare le facoltà corrispondenti alla servitù e nel peso per i titolari del fondo servente (l’area condominiale antistante i negozi gravata dalla servitù d’uso) di dover subire il suddetto esercizio.
Non osta alla configurabilità di una servitù a favore del bene di proprietà esclusiva di un condomino ed a carico del condominio (o viceversa) il principio nemini res sua servit in quanto l’intersoggettività del rapporto è garantita dal concorso di altri titolari sul bene comune[5].
È necessario, per integrare il requisito indefettibile dell’utilitas, richiesto dall’art. 1027 c.c., che il godimento, diverso rispetto alla normale destinazione del bene, sia correlato all’imposizione di una limitazione con il carattere della realità, rimanendo altrimenti la fattispecie nell’ambito della regolamentazione del godimento nei rapporti tra condomini con norma di natura regolamentare.
La costituzione della servitù all’atto del frazionamento di un fabbricato, con contestuale nascita del condominio, potrebbe avvenire anche per destinazione del padre di famiglia a condizione che sia rispettato il requisito dell’apparenza posto dall’art. 1061 c.c. [6].
L’inquadramento della fattispecie nell’ambito della servitù comporta che il “maggior uso” consentito ad un condomino non deve comportare un’impossibilità di fatto per gli altri condomini, comproprietari dell’area gravata dalla servitù, di una qualunque forma di utilizzo dell’area comune, poiché in tale evenienza si sarebbe in presenza di una “proprietà mascherata”, qualificata come diritto d’uso solamente per ovviare a problemi di identificazione catastale, ad es. perché l’area comune non è stata frazionata in tante porzioni quanti sono i posti auto od i cortili da assegnare in proprietà esclusiva. Non è concepibile una servitù che, per l’ampiezza del suo contenuto, implichi lo svuotamento della proprietà del fondo servente, nel suo contenuto essenziale, risultando insuperabili i limiti strutturali e connaturali della situazione reale[7]. La servitù di uso esclusivo potrà, quindi, attribuire al titolare del fondo dominante maggiori facoltà di utilizzo dell’area gravata ma non potrà precludere una sia pur minima facoltà di utilizzo ai titolari del fondo servente, ad esempio il diritto di passaggio o di accesso all’area per determinati scopi.
Anche la giurisprudenza sia di legittimità sia di merito ha mostrato di accogliere la prospettata ricostruzione giuridica del “diritto d’uso esclusivo e perpetuo” come servitù[8] oppure come ampliamento della facoltà di godimento concessa ad un singolo condomino su una parte comune condominiale[9].
Non può nascondersi, però, che la formula in passato utilizzata dalla prassi “diritto d’uso esclusivo e perpetuo” sia imperfetta ed abbia dato adito a notevoli dubbi interpretativi soprattutto per l’apparente contraddizione in termini tra la disciplina del diritto d’uso, essenzialmente limitato nel tempo ed incedibile, e la pretesa perpetuità del diritto costituito.
Nel caso in esame è verosimile che, seguendo una prassi alquanto diffusa, negli atti di provenienza antecedenti alla vendita in questione, fin dalla costituzione del condominio, sia stata inserita pedissequamente la stessa clausola di uso esclusivo e perpetuo, con l’intento di attribuire un vantaggio ai negozi stessi. È verosimile, quindi, che la signora Tizia non fosse proprietaria esclusiva dell’area antistante il negozio ma fosse titolare della servitù di uso esclusivo sull’area, come i suoi danti causa, fin dalla costituzione del condominio; ricostruito il diritto come servitù, lo stesso si sarebbe trasmesso automaticamente a Caio e Sempronia, quali acquirenti del fondo dominante, cioè il negozio. Il contratto di compravendita ha dato conto, con formula puramente descrittiva, dell’esistenza della servitù di uso sull’area a favore del negozio compravenduto.
Inoltre, appare evidente che l’area antistante i negozi ha natura di accessorio dei negozi stessi, come è confermato dalla circostanza gli inquilini, con il consenso della proprietaria, hanno realizzato una veranda sull’area, al servizio del negozio, successivamente oggetto di domanda di condono edilizio. Non è dato conto nella motivazione della sentenza di una espressa volontà della venditrice di rompere il rapporto pertinenziale esistente tra il negozio e l’area antistante. Com’è noto gli atti e i rapporti giuridici che hanno per oggetto la cosa principale comprendono anche le pertinenze, se non è diversamente disposto (art. 818, comma 1, c.c.). E la volontà contraria alla sequela di diritto del bene accessorio rispetto al bene principale deve essere manifestata espressamente.
La sentenza in esame, in motivazione, richiama diffusamente il criterio della comune intenzione dei contraenti anche se di fatto utilizza come unico criterio interpretativo la formulazione letterale del contratto ovvero le parole ed espressioni usate nel contratto stesso. A bene vedere, l’art. 1362 c.c., rubricato “Intenzione dei contraenti” stabilisce che nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto. Dalla vicenda complessiva sembra difficile individuare una comune volontà delle parti di rompere il collegamento esistente tra il negozio e l’area antistante sulla quale insisteva il manufatto realizzato dagli acquirenti al tempo in cui erano conduttori del negozio. Tanto più che nell’atto di compravendita non vi è traccia di una espressa volontà della venditrice di riservarsi la proprietà dell’area antistante il negozio sulla quale la stessa non ha successivamente esercitato alcun tipo di dominio. L’atto notarile, secondo i principi della deontologia professionale, deve enunciare in maniera chiara gli effetti prodotti dall’atto e quindi il mutamento della realtà giuridica[10]. Non appare plausibile che una riserva di proprietà debba desumersi implicitamente ricorrendo ad un incerto criterio interpretativo.
Qualificare nulla, per contrarietà a norma imperativa, una clausola contenuta in un atto notarile quando in dottrina sono state proposte interpretazioni, accolte dalla giurisprudenza prevalente, che la sorreggono pienamente da punto di vista sistematico – qualificando il diritto di uso esclusivo come servitù oppure come godimento ripartito tra i condomini di una parte comune condominiale – appare in netto contrasto con il principio di conservazione del contratto enunciato dall’art. 1367 c.c. in base al quale «Nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno».
Osservazioni critiche sulla decisione in tema di addizioni e accessione.
Il Tribunale, dopo avere riconosciuto agli eredi della venditrice la proprietà dell’area antistante il negozio, si è trovato a dover decidere sulla proprietà della veranda realizzata dagli acquirenti. Ed ha attribuito la proprietà della veranda agli acquirenti con la motivazione che la stessa veranda era stata realizzata dagli acquirenti non in forza del contratto di locazione bensì in forza del diritto di uso esclusivo.
Sotto l’aspetto prettamente giuridico, la motivazione non può non lasciare perplessi se solo si considera che la disciplina delle addizioni e dei miglioramenti contenuta nella locazione e nell’usufrutto è sostanzialmente corrispondente e prevede il diritto di colui che ha eseguito l’addizione di toglierla al termine del suo diritto, qualora ciò possa farsi senza nocumento della cosa, salvo che il proprietario preferisca ritenere le addizioni corrispondendo un’indennità pari alla minor somma tra l’importo della spesa e il valore delle addizioni al tempo della riconsegna. Costituisce una deroga al principio dell’accessione il c.d. jus tollendi, consistente nel diritto del terzo qualificato (usufruttuario, enfiteuta, possessore e locatario) che ha realizzato la costruzione di toglierla al termine del suo diritto se non deriva danno alla cosa[11]. Si consideri, però, che prevale sempre il principio dell’accessione perché il proprietario del suolo ha il diritto di scelta di ritenere le addizioni corrispondendo un’indennità al costruttore. La disciplina delle addizioni effettuate dal locatario e dall’usufruttuario – fatto salvo il diritto del conduttore e dell’usufruttuario di togliere la costruzione, separandola dal suolo – non opera, dunque, una deroga al principio dell’accessione, in virtù del quale qualunque costruzione od opera sia incorporata al suolo diventa di proprietà del proprietario del suolo, salvo che risulti diversamente dal titolo o dalla legge (art. 934 c.c.).
La principale deroga al principio dell’accessione si rinviene dell’istituto della superficie che consente di separare la proprietà dell’area dalla proprietà della costruzione (artt. 952 e ss. c.c.)[12]. Altra ipotesi di esclusione dell’operare dell’accessione si ha nel c.d. condominio precostituito, cioè quell’accordo con cui i comunisti di un’area si attribuiscono reciprocamente il diritto di edificare una porzione di piano che, in deroga al principio dell’accessione, diverrà di proprietà esclusiva del condomino che l’ha realizzata. Il condominio precostituito è una tipica ipotesi di volontà delle parti contraria all’operare dell’accessione a cui fa riferimento l’inciso finale dell’art. 934 c.c.[13].
La costituzione di un diritto di superficie richiede una volontà espressa delle parti in forma scritta (art. 1350, comma 1, n. 2, c.c.)[14] ed anche il titolo che consacra l’accordo contrario all’operatività dell’accessione deve risultare da atto scritto ad substantiam, in quanto modifica la situazione giuridica costituita dall’acquisto della proprietà della costruzione da parte del proprietario del suolo su cui la stessa insiste[15].
Al di fuori delle ipotesi descritte il principio dell’accessione opera come principio generale dell’ordinamento giuridico a tutela di interessi superiori. Le regole in materia di accessione sono “funzionali alle esigenze di ricompattazione e di semplificazione delle situazioni di appartenenza”; queste semplificano e rendono più sicura la circolazione della proprietà; il terzo acquirente, infatti, può fare affidamento sulle sole risultanze dei registri immobiliari riferite alla proprietà del terreno per presumere che tutto ciò che di fatto è radicato sul suolo sia compreso nella proprietà acquisenda[16]. «Tale presunzione non può essere delusa perché o dai registri risulta una diversa disciplina, oppure qualunque altra è a lui inopponibile»[17].
La sentenza che si commenta, dopo avere dichiaratamente escluso che le parti avessero voluto costituire un diritto di superficie, ha attribuito la proprietà del manufatto ad un soggetto diverso dal proprietario dell’area senza dare conto di alcun titolo o regola giuridica idonea a vincere il principio dell’accessione, spezzando in maniera ingiustificata il collegamento giuridico tra il suolo e quanto ad esso incorporato.
Osservazioni conclusive.
Dalla vicenda in esame si può trarre l’insegnamento che è assolutamente consigliabile non utilizzare formule che, seppure ampiamente conosciute nella prassi immobiliare, non diano conto con esattezza dell’istituto giuridico utilizzato e lascino aperti dubbi interpretativi.
L’uso esclusivo e perpetuo, come più volte sottolineato, è uno strumento in passato ampiamente utilizzato dalla prassi immobiliare ma oramai difficilmente compatibile con gli stringenti controlli di conformità catastale oggettiva e soggettiva prescritti dall’art. 29, comma 1-bis della legge 27 febbraio 1985, n. 52 che prescrive una verifica, al momento del trasferimento immobiliare, della conformità catastale oggettiva e soggettiva del bene trasferito, cioè la corrispondenza tra stato dei luoghi, planimetria catastale e dati di identificazione catastale, oltre alla verifica da parte del notaio della esatta intestazione catastale. Come si è osservato sopra, a volte l’istituto dell’uso esclusivo e perpetuo è stato utilizzato per “mimetizzare una proprietà mascherata”, soprattutto nelle ipotesi in cui l’area concessa in uso non avesse una propria identificazione catastale. La conformità catastale è richiesta per le “unità immobiliari urbane”, cioè quei beni immobili produttivi di reddito fondiario che debbono essere iscritti in catasto e tra questi rientrano anche i posti auto. Nel caso di costituzione di una servitù la dichiarazione dell’alienante o l’attestazione di un tecnico della conformità dei dati catastali e delle planimetrie rispetto allo stato dei luoghi è richiesta con riferimento al fondo servente, quello tenuto a subire il peso dell’esercizio della servitù (normalmente adibito a cortile o posto auto)[18].
Rimane fuori dalla disciplina di cui all’art. 29, comma 1-bis della legge 27 febbraio 1985, n. 52 la servitù costituita per destinazione del padre di famiglia che «ha luogo quando consta, mediante qualunque genere di prova, che due fondi, attualmente divisi, sono stati posseduti dallo stesso proprietario, e che questi ha posto o lasciato le cose nello stato dal quale risulta la servitù» (art. 1062 c.c.). Si tratta di un acquisto ex lege, a titolo originario, derivante dallo stato dei luoghi che rivela materialmente l’esistenza di un peso su un fondo a vantaggio di un altro fondo, già appartenuti allo stesso proprietario. Non essendo un atto negoziale costitutivo di un diritto reale rimane fuori dalla disciplina di cui all’art. all’art. 29, comma 1-bis della legge 27 febbraio 1985, n. 52[19].
Per i diritti di uso esclusivo già costituiti non si pone il problema della conformità catastale, trattandosi, secondo la ricostruzione prevalente, di servitù d’uso che si trasmettono automaticamente all’avente causa del bene principale[20]. L’area non è quindi oggetto del consenso traslativo delle parti ma l’acquirente del fondo dominante mantiene l’utilità consistente nell’uso più intenso a favore della sua unità immobiliare dell’area (condominiale) asservita, secondo la regola tipica delle servitù che seguono automaticamente il trasferimento dei fondi ai quali sono associate.
Il notaio che si imbatta in fattispecie di uso esclusivo e perpetuo già costituite deve farsi carico di ricostruire esattamente la natura del diritto come i) servitù prediale oppure come ii) ampliamento della facoltà di godimento su un bene comune attribuita ad un condomino in forza di una pattuizione contenuta nel regolamento di condominio, in maniera da evitare che possa sorgere alcun dubbio interpretativo e che i futuri proprietari del fondo asservito possano tentare, come nella fattispecie al vaglio, di “smontare il diritto d’uso perpetuo” mettendo in evidenza l’apparente contraddizione tra l’uso perpetuo e la disciplina normativa del diritto d’uso, di durata limitata e incedibile, oppure facendo valere il principio di tipicità dei diritti reali. Si tratta di argomentazioni in cui ci si imbatte con una certa frequenza sfogliando una rassegna di giurisprudenza, che possono contribuire ad alimentare la conflittualità tra le parti ed il contenzioso giudiziario.
Caso proposto alla Festa dei Lustri 2017 organizzata dall’Associazione Sindacale dei Notai dell’Emilia Romagna “Aldo Dalla Rovere”, svoltasi a Bologna, Villa Benni il 30 settembre 2017
Note:
[1] A. Marsala, Parcheggi condominiali in uso esclusivo, in FederNotizie, 1998; A. Torroni, Clausole riguardanti gli spazi per parcheggio e gli usi esclusivi condominiali, in E. Marmocchi (a cura di), Il Condominio negli edifici tra realità e personalità, Milano, 2007, 142.
[2] A. Marsala, Parcheggi condominiali in uso esclusivo, cit.; l’osservazione è ripresa da Trib. Padova 8 gennaio 2015.
[3] G. Branca, Comunione. Condominio negli edifici, 6, in Comm. Sciaoloja-Branca, Bologna-Roma, 1982, 504 ss.; G. Baralis-C. Caccavale, Diritti di “uso esclusivo” nell’ambito condominiale, in Consiglio nazionale del notariato, Studi e materiali, 2003, 493; R. De Michel, Servitù e condominio, in Giur. it., 1994, 7; A. Marsala, Parcheggi condominiali in uso esclusivo, cit.; G. Musolino, Uso, abitazione e servitù irregolari, Bologna, 2012, 145 ss.; A. Torroni, Clausole riguardanti gli spazi per parcheggio e gli usi esclusivi condominiali, cit., 142 ss.; U. Morello, Tipicità e numerus clausus dei diritti reali, in Gambaro-Morello (diretto da), Trattato dei diritti reali, I, Proprietà e possesso, Milano, 2008, 158 ha qualificato il diritto d’uso come diritto reale atipico, i cui elementi essenziali sono ormai chiari grazie ad una prassi consolidata nell’ambito del condominio.
[4] «Non sono infrequenti nella prassi clausole con cui è attribuita al proprietario di un locale ad uso commerciale posto al piano terra del fabbricato la facoltà di uso dell’area antistante la sua unità immobiliare per l’accesso, il calpestio, il parcheggio per i clienti, l’esposizione delle merci. Si tratta di poteri accessori e funzionali al miglior utilizzo di un bene principale» (A. Torroni, Clausole riguardanti gli spazi per parcheggio e gli usi esclusivi condominiali, cit., 146 s.). Per il riconoscimento ad un esercizio commerciale posto al piano terra della facoltà di “uso esclusivo per l’accesso, il calpestio e l’esposizione delle merci” cfr. App. Palermo 15 febbraio 1977, in Giur. merito, 1981, 395; App. Milano 18 gennaio 1983, in Foro pad., 1983, I, 187.
[5] Cass. 27 luglio 1984, n. 4457, in Rep. Foro it., 1984, voce Servitù, n. 3; Cass. 24 giugno 1967, n. 1560, in Mass. giur. it., 1967, 606; Cass. 22 luglio 1966, n. 2003, in Giust. civ., 1966, II, 2135.
[6] Cfr. R. De Michel, Servitù e condominio, cit.; A. Tordo Caprioli, Osservazioni in tema di servitù per destinazione del padre di famiglia, comunione e condominio, in Vita not., 1996, CXXI; in giurisprudenza, cfr. Cass. 13 novembre 1993, n. 11207, in Giur. it., 1994, 1, 1816, con nota di De Michel; per un approfondimento della fattispecie normativa della servitù costituita per destinazione del padre di famiglia, A. Spatuzzi, La destinazione del padre di famiglia quale ipotesi costitutiva del diritto di servitù: riconoscibilità della fattispecie e profili applicativi, in Corriere giur., 2015, 6, 828.
[7] Comporti, Le servitù prediali, in Tratt. di dir. priv. diretto da Rescigno, Torino, 1982, 214; in giurisprudenza è stata sanzionata con la nullità la clausola che comporti la totale elisione o l’assorbimento delle facoltà di godimento del fondo servente (Cass. 22 aprile 1966, n. 1037; Cass. 31 maggio 1950, n. 1343); sui limiti inderogabili posti all’autonomia privata dalla struttura normativa della servitù, cfr. F. Alcaro, Appunti in tema di servitù “di uso esclusivo”, in Consiglio nazionale del notariato, Studi e materiali, 2009, 1027 ss.
[8] Cass. 15 aprile 1999, n. 3749; Cass. 13 novembre 1993, n. 11207, cit.; Trib. Padova 8 gennaio 2015, cit.; Trib. Genova 20 giugno 2006.
[9] Trib. Torino 9 dicembre 2009; in dottrina cfr. G. Baralis-C. Caccavale, Diritti di “uso esclusivo” nell’ambito condominiale, cit., 490 ss.
[10] Secondo l’art. 50 dei Principi di deontologia professionale dei notai approvati con deliberazione del Consiglio Nazionale del Notariato n. 2/56 del 5 aprile 2008, pubblicati nella Gazzetta ufficiale n. 177 del 30 luglio 2008 «Per soddisfare le esigenze di chiarezza e di completezza il notaio deve curare che dal testo dell’atto, normalmente risultino: a) la completa qualificazione giuridica della fattispecie, con indicazione dei più rilevanti effetti che ne derivano per diretta volontà delle parti o in forza di legge o quale espressione di usi contrattuali (ad es.: clausole di garanzia, responsabilità) […]».
[11] Cfr. art. 975, comma 3; art. 986, comma 2; art. 1150, comma 5; art. 1593 del codice civile.
[12] Si è ritenuto in dottrina che il termine «titolo» non può che riferirsi ad un diritto di superficie, costituito dal proprietario del suolo in favore dell’edificante, unica ipotesi di coesistenza di proprietà separate che l’ordinamento giuridico consenta a titolo negoziale (E. Guerinoni, Accessione, unione e commistione, specificazione, in A. Gambaro-U. Morello, Trattato dei diritti reali, volume I, Milano, 2008, 771 ss.). Secondo Cass. 15 dicembre 1966, n. 2946 il legislatore, disponendo che l’accessione non operi quando risulta diversamente dalla legge o dal titolo, ha inteso riferirsi, in primo luogo, alle disposizioni concernenti il diritto di superficie (artt. 952 ss. c.c.), in secondo luogo, alle norme relative alle addizioni dell’enfiteuta (art. 975, comma 3, c.c.), dell’usufruttuario (art. 986, comma 2, c.c.), del possessore (art. 1150, comma 5, c.c.) e del locatore (art. 1593 c.c.), per le quali lo jus tollendi è quasi sempre la regola, se non ne venga nocumento alla cosa, e, quanto alle eccezioni contenute nel titolo, alle costituzioni di diritti reali, fra i quali, oltre alla costituzione diretta di un diritto di superficie, la c.d. concessione ad aedificandum, con la quale il proprietario del suolo rinuncia a fare propria la costruzione che sorgerà su di esso.
[13] Cfr. E. Rossi, Trasferimenti immobiliari e imposizione fiscale, Torino, 2007, 62 ss.
[14] Cass. 16 marzo 1984, n. 1811, in Rep. Foro it., 1984, voce Proprietà, c. 2434, n. 28.
[15] Cass. 18 aprile 1996, n. 3675, in Riv. giur. edil., 1996, I, 905; Cass. 26 aprile 1979, n. 2413.
[16] E. Guerinoni, Accessione, unione e commistione, specificazione, cit., 773.
[17] A. Gambaro, Il diritto di proprietà, in Tratt. dir. civ. e comm. Cicu-Messineo-Mengoni, vol. VIII, tomo 2, Milano, 1995, 759 s.
[18] M. Leo-A. Lomonaco-G. Monteleone-A. Ruotolo, La legge 30 luglio 2010, n. 122, di conversione del d.l. 30 maggio 2010 n. 78 in materia di circolazione immobiliare – Novità e aspetti controversi, in Consiglio nazionale del notariato, Studi e materiali, 2011, 38.
[19] In senso conforme, M. Leo-A. Lomonaco-G. Monteleone-A. Ruotolo, La legge 30 luglio 2010, n. 122, di conversione del d.l. 30 maggio 2010 n. 78 in materia di circolazione immobiliare – Novità e aspetti controversi, cit., 39 s.
[20] M. Leo-A. Lomonaco-G. Monteleone-A. Ruotolo, La legge 30 luglio 2010, n. 122, di conversione del d.l. 30 maggio 2010 n. 78 in materia di circolazione immobiliare – Novità e aspetti controversi, cit., 34 e 37.

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