a cura di Paolo Piccoli
Il mio intervento al Congresso ha suscitato molte dietrologie e qualche preoccupazione sul versante del “si prepara a tornare?”.
Fortunatamente quell’impegno futuro spetta ad altri, ma la passione resta.
Dunque, mi auguro che questo intervento, richiestomi dalla direzione di Federnotizie, venga interpretato per quello che è: una riflessione sulla “questione Notariato” dettata unicamente dall’amore per un ruolo pieno di soddisfazioni, comprese le connesse, pesanti responsabilità.
In estrema sintesi mi sembra che ci siano tre aspetti da tenere in considerazione.
Il primo: la frattura generazionale.
I cambiamenti rapidissimi che si sono verificati negli ultimi dieci anni, le liberalizzazioni, l’abolizione della tariffa, la crisi economica, l’aumento del numero dei posti in tabella, ha portato all’interno della categoria una contrapposizione generazionale.
È un dato che, da che mondo è mondo, c’è sempre stato perché i giovani tendono a rompere le incrostazioni, apportare idee nuove, a gettare sassi nello stagno. Anche noi, quando trent’anni fa ci iscrivemmo a ruolo cercammo di portare energia, idee nuove, modernità. Ma il dato di fondo era sempre comunque il miglioramento della qualità, il rispetto – per l’esperienza, per il lavoro fatto dentro le associazioni di categoria – nei confronti di chi aveva tracciato la strada prima di noi. Non che non ci fossero già allora ombre accanto alle luci, comportamenti non sempre limpidi, tentativi di accaparramento e difesa delle rendite di posizione. Ma quasi sempre c’era un limite invalicabile, posto dalla consapevolezza di essere dei pubblici ufficiali con molti doveri oltre che con altrettanti diritti e privilegi.
Oggi mi sembra che i giovani, figli di riforme che sono venute dalla mia generazione, irrompano nel notariato con molta impazienza, con troppa aggressività “commerciale”, puntando più che sulla propria reputazione, derivante dalla qualità delle prestazioni, su dati puramente quantitativi, legati a sconti e a rapporti di collaborazione che inevitabilmente incidono pesantemente sulla qualità e sulla libertà di giudizio del notaio.
Emerge evidente la propensione spiccata per una valorizzazione della libera professione non come strumento organizzativo della funzione ma come obiettivo in sé, con la contestuale contraddizione della riserva di competenze. Una scelta che porterà all’estinzione del Notariato, poiché nel mercato delle professioni giuridiche la libera professione c’è già: è quella dell’avvocato. Forse molti di noi hanno sbagliato mestiere senza saperlo.
Comunque quanti sono attrezzati per sopravvivere nel mercato libero?
Dunque, se dimentichiamo il quadro di riferimento costituito dalla delega di funzioni statali ipotechiamo il nostro futuro, perché il Notariato come categoria tutela ciascuno di noi solo se facciamo squadra almeno “sui principi”, sviluppando la competizione tra noi sulla capacità di attrarre mercato in termini di qualità, non di “scontistica” e totale abbandono della propria libertà e del proprio ruolo di terzietà.
Mi si obietterà che i tempi sono cambiati che non ci sono più le condizioni di opulenza di una volta e che se non si fa così, non si lavora. A mia volta mi permetto di obiettare che quando sono diventato notaio ho evitato accuratamente di salire “altrui scale” e di accettare compromessi al ribasso e che il mio repertorio è cresciuto lentamente man mano che cresceva la mia reputazione professionale.
Secondo: in questo quadro la deontologia, l’etica, non sono parole vuote, fatte di stupido irenismo, ma l’essenza stessa del rispetto della funzione.
Come possiamo pretendere che gli altri ci rispettino se noi per primi non rispettiamo la nostra funzione, la nostra stessa dignità, nella sostanza, nei comportamenti e nei compensi adeguati al compito che lo Stato ci ha affidato?
Rimane il fatto che la professione avrà un futuro soltanto se saprà fare della deontologia un abito mentale; che non consiste soltanto nel comportarsi secondo norme di rispetto che tutti intuiamo anche senza bisogno di una normativa specifica, ma anche nel rapportarsi con le altre categorie e con tutte le componenti della società non dimenticando, in ogni momento, che lo Stato ci ha resi portatori della missione di garanti della legalità, tra le parti e verso l’ordinamento; e che perciò non ci possono essere compromessi di alcun genere legati a nostri interessi particolari.
Terzo: vi è poi la questione del rapporto con il mondo esterno, con la politica, con le istituzioni in genere. E qui, man mano che il tempo passa, si rafforza la mia convinzione che sia necessario un radicale cambiamento delle modalità elettorali dei nostri organi istituzionali.
I tempi esigono una compattezza ed una forza che essi non possono avere per le modalità con cui veniamo chiamati ad eleggere la classe dirigente.
Per esperienza diretta, un Consiglio Nazionale formato da 20 componenti designati da zone diverse senza vincoli di programma è destinato troppo spesso ad estenuanti mediazioni e, su molti problemi, alla paralisi nel mentre altrove vi è chi decide sul nostro futuro. È dunque necessario che la categoria prenda coscienza della necessità di una modalità di elezione che abbia riferimento ad un programma e ad una candidatura alla presidenza, sia pure nel rispetto degli equilibri territoriali.
L’ideale sarebbe tener conto anche del numero dei notai presenti nelle diverse zone. Il sistema attuale fa sì che un consigliere nazionale eletto da 50 colleghi pesi quanto il consigliere nazionale espresso da 300 colleghi, criterio che nulla ha a che vedere con un principio di democraticità sostanziale.
Ma, con un solo anno di consiliatura davanti e la necessità di una modifica legislativa non c’è molto tempo per elaborare una proposta praticabile. Forse si dovrebbe lavorare sull’esistente per cercare di consolidare una maggioranza più coesa possibile.
Al raduno invernale di Cortina se ne parlerà il 21 febbraio, con i Presidenti del Consiglio Nazionale del Notariato, di Federnotai e dei Giovani Notai.
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