Una delle novità di assoluto rilievo del “Jobs act per il lavoro autonomo” (Legge 22 maggio 2017 n. 81), volto a favorire (tra l’altro) la flessibilità di tempi e modi di esercizio delle libere professioni nonchè – perlomeno nell’intenzione – nuove opportunità di lavoro e crescita, è la facoltà espressamente riconosciuta – all’art. 12, n. 3 – di costituire “reti tra professionisti” e, precisamente, di soli appartenenti a categorie professionali protette ovvero di tipo cosiddetto “misto” (reti di imprenditori e di liberi professionisti, liberamente combinati tra loro).
di Michele Oggioni
E’ un’apertura di una figura tipica, o – meglio – tipizzata dagli autori che se ne sono occupati negli ultimi anni (“la “rete”), al mondo delle professioni.
La “rete” ed il contratto istitutivo della “rete” (ovvero la sua “adesione” successiva) in anni passati hanno infatti attratto l’attenzione del mondo dei giuristi, se non altro per l’interesse, a monte, del mondo produttivo: alla fattispecie della “rete” erano infatti correlate facilitazioni ed agevolazioni fiscali (sospensioni d’imposta) di non poco conto, non più attuali.
L’interesse (economico e giuridico) è andato scemando per mancata riproposizione dei suddetti benefici e, tuttavia, proprio di recente, con le norme in oggetto – vigenti da giugno 2017, il legislatore ha ritenuto di richiamare la figura della “rete” per estenderla ad un mondo lavorativo che prima non vi aveva accesso.
Preciso che la norma che consente la partecipazione di professionisti ad imprese è inserita in un contesto del tutto particolare e, dunque, in sede di prima applicazione, mi atterrei al riconoscimento per i fini particolari per i quali essa è stata contemplata.
Il succitato art. 12 della Legge n. 81/2017 prevede infatti che la suddetta “rete tra professionisti” sia uno – di più – strumenti per la partecipazione a bandi ovvero per il concorso all’aggiudicazione di appalti privati.
Sono previsti quali altri strumenti o forme alternative di aggregazione: i “consorzi” (ivi definiti: “consorzi stabili professionali”), le associazioni temporanee (ivi definite: “associazioni temporanee professionali”) – del tipo “A.T.I.” (associazione temporanea di impresa) o “R.T.I.” (raggruppamento temporaneo di imprese), già note, poichè oggetto di frequente ricorso nel mondo delle imprese, oggi regolamentate dall’art. 48 del D. Lgs. 18 aprile 2016 n. 50 (in materia di appalti pubblici).
Evidentemente le tre suddette figure contemplate, nominate dalla legge e per ciò solo esplicitamente “riconosciute”, sebbene non siano definite, se non tramite relatio a figure omologhe di aggregazioni tra imprenditori, corrispondono a tre diverse e possibili graduazioni di intensità di partecipazione e concorso di professionisti al risultato utile finale voluto da un bando, pubblico o privato, cui esse sono destinate;
ovvero, in altri termini, i professionisti (e, trattandosi, di partecipazione a gare pubbliche o private, in primis architetti, ingegneri, geometri che siano interessati ad unirsi per il concorso ad una qualche forma di progettazione che costituirà oggetto del bando) potranno:
– in prima battuta costituire un’associazione temporanea (finalizzata ad uno specifico affare/progetto) mutuando le forme del raggruppamento temporaneo di imprese dal Codice degli appalti (e con esso la qualificazione giuridica: di mandato con rappresentanza ad un “capogruppo”),
– ovvero costituire, se più coesi (cioè se trattasi di unione destinata a sopravvivere al singolo bando), una “rete tra professionisti”, con applicazione a questa (applicazione espressa – essendovi un rinvio esplicito fatto dalla citata Legge n. 81/2017 alle norme poste a disciplina della “rete di imprese”), alla duplice forma di rete/contratto ovvero di rete/soggetto ma solo in linea di principio ovvero in astratto (poiché – come scriverò poi – è da escludere la materiale possibilità di ricorso alla figura della “rete/soggetto tra professionisti”),
– sino ad arrivare alla formazione di una struttura definitiva, compatta, ben organizzata, destinata quindi a durare nel tempo, che è la forma del “consorzio”.
E’ appena il caso di soffermarsi a riflettere come, nuovamente, il legislatore consenta l’impiego di “forme” o “schemi organizzativi” (ripetesi: consorzi, R.T.I., reti) già in uso ovvero “rodati” per contesti specifici – cioè originariamente pensati e scritti per regolamentare “contenuti” precisi, ben determinati, connotati da una causa tipica (“l’esercizio di attività economica di impresa”) – e ciò per lo svolgimento di altre attività lavorative (quelle del libero professionista).
Lo stesso legislatore lascia però agli interpreti tutte le difficoltà e i dubbi in merito all’applicazione, diretta o analogica, delle norme che quelle “forme” o “schemi” disciplinano.
Scendendo nel concreto, e solo per esemplificare, si faccia caso al fatto che la rete/soggetto presuppone – per la sua giuridica esistenza – l’iscrivibilità nel Registro delle Imprese;
orbene, nel caso dei professionisti, manca, a tutta evidenza, e salva solo l’ipotesi della “società tra professionisti”, il presupposto per la formazione di un “soggetto di diritto” del tipo indicato;
dunque, la rete tra professionisti non potrà, allo stato, essere che mero “contratto”;
invece, volendo addivenire alla formazione di un centro di interessi che abbia una qualche forma o nucleo di soggettività giuridica, occorrerà rivolgere l’attenzione alla suddetta figura del “consorzio” (“consorzio tra professionisti”).
Conforta questa mia tesi il fatto che il Ministero dello Sviluppo Economico, già anni addietro, su domanda espressa di un’Università che intendeva partecipare ad una “rete di imprese” per lo sviluppo di un processo economico innovativo, ha negato – con suo parere – la possibilità per il suddetto Ente Pubblico (l’Università) di adesione alla voluta “rete tra imprese” per difetto palese della sua iscrizione (di essa Università) presso il Registro delle Imprese.
Dunque, concludendo, sono benvenute le nuove norme del “Jobs act per il lavoro autonomo” poichè creano:
– nuove opportunità di lavoro e di partecipazione a risultati economici utili di attività, specie di progettazione, di sicuro interesse per i professionisti,
– che consentono di valorizzare, nell’ambito delle aggiudicazioni e quale criterio per le aggiudicazioni di bandi/progetti pubblici, il lavoro di professionisti – che vengano espressamente nominati nelle domande di bando, a costituire detti professionisti (e magari anche nomi altisonanti del mondo delle professioni: si pensi alle cosiddette “archistar”) parte integrante di un team (di imprese).
Nella piena consapevolezza però:
– da un lato, come detto, che non tutte le norme sulle “reti di imprese” potranno trovare facile applicazione in ambito professionale, anche solo per motivi di fatto come quello sopra indicato (la mancanza di pubblicità commerciale in capo ai professionisti),
– dall’altro, delle responsabilità che i professionisti intenzionati a partecipare a reti o associazioni temporanee, specie se “miste” (cioè con imprenditori), assumono, necessariamente, in solido appunto con imprese che possono avere “capacità di assunzione di rischi” ben diverse.
E’ appena il caso di aggiungere che la nuova apertura al mondo delle professioni imporrà forse di rivedere quanto è stato scritto sino ad oggi in materia di “reti” e di tratti qualificanti le “reti”: le definizioni in circolazione ad oggi, specie per differenziazione dalla fattispecie del consorzio, traggono il loro spunto da concetti tipici della nozione di impresa e di imprenditore (capacità competitiva, innovazione tecnologica, ed altre – tutte utilizzate, ripetesi, per qualificare la rete e tutte pertinenti e qualificanti l’impresa, non anche la professione protetta).
In attesa di sviluppi, specie normativi, e viste le difficoltà di coordinamento di disciplina, sarei comunque oggi molto cauto nel costituire aggregazioni del tipo “reti tra professionisti” se non finalizzate, per vocazione iniziale, da esplicitare, alla partecipazione a concorsi/bandi pubblici o privati specifici, determinati.

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