Approfitto senza ritegno dell’ormai ultraventennale ospitalità di Federnotizie per concedermi due bordi nel divertente bulesumme (*) che ha fatto seguito all’impiego da parte di Antonio Teti del termine nanismo. Il motore di ricerca della Rivista propone in verità un’altra occorrenza del 2019, ma è solo uno scherzo dell’informatica: lì la parola era onanismo, impiegata da Antonio di Lizia (e da chi, altrimenti?).
Dichiaro senza diplomazia alcuna la mia posizione. Penso che le evoluzioni sociali e tecnologiche possano in effetti travolgere il notariato, ma sono ancor più convinto che la categoria possegga tutti gli atout per essere parte attiva del processo e cavalcare la tigre senza finire sbranata. Purché di parte attiva si tratti, per l’appunto.
Credo che pochi tra noi si dichiarerebbero in disaccordo, teoricamente, ma quando si viene al dunque, la musica cambia. Da anni faccio collezione di arrabbiature nelle riunioni notarili europee, quando constato la totale assenza di interesse di molte delegazioni a una reale cooperazione transfrontaliera. Che ognuno riceva i suoi atti; che i tedeschi non pensino di stipulare tra connazionali in Costa Brava (c’è un mercato…), e che i polacchi non provino neppure a domandare l’intavolazione di un legato in Germania. Intendiamoci: nessuno pensa che un notaio sloveno possa operare in autonomia sul mercato italiano; occorre una specifica competenza sulla normativa locale. Si parla, piuttosto, di un agire coordinato di notai appartenenti a tutte le giurisdizione interessate.
La società evolve, infatti, anche senza il nostro permesso, e nell’Erasmus Generation non è così inverosimile che un olandese sposi una portoghese a Parigi e che i coniugi prendano residenza a Bruxelles e decidano di acquistare una casetta in un’isola greca. Queste coppie hanno bisogno, come tutti, di estate planning e di consulenza in materia successoria, che richiedono però, nel loro caso, competenze relative a più ordinamenti. E qui i casi sono fondamentalmente due. O più notai dei Paesi coinvolti pongono a fattor comune il loro know-how e offrono congiuntamente un servizio, oppure la coppia sarà assistita da uno studio legale internazionale, per lo più di matrice anglosassone. La scelta è in larga misura la nostra. Lo stesso vale per la tecnologia, e segnatamente per l’intelligenza artificiale.
Se fantascienza e futurologia presentavano l’intelligenza artificiale come imminente sin dagli anni ’50 e ’60 (la citazione di 2001 Odissea nello Spazio ha trovato il tempo di logorarsi), ci ritroviamo oltre sessant’anni dopo senza neppure poter contare su una definizione generalmente accettata. Personalmente trovo brillante l’idea di chi ha definito l’AI, molto semplicemente, come The Next Thing: ciò che non è stato ancora realizzato ci appare come AI. E in effetti, se venti anni fa si fosse ipotizzato che un motore di ricerca, a fronte della query “pulci dei felini”, sarebbe stato capace (com’è oggi normalissimo) di servire decine di pagine ove non compare la parola “felino”, ma solo “gatto”, avremmo con ogni probabilità parlato di AI.
Il concetto di intelligenza artificiale evolve insomma nel tempo, e oggi corrisponde sostanzialmente al machine learning, quei sistemi software che, una volta allenati con un determinato set di dati, sono in grado di migliorare autonomamente le loro prestazioni, senza intervento umano, apprendendo dai dati che ricevono. Sistemi di tal fatta funzionano tanto meglio quanto più imponente è la massa di dati su cui operano. E’ un’osservazione che si legge spesso a proposito della Cina: potendo raccogliere quantità impressionanti di dati senza preoccupazioni di privacy, l’efficienza dei loro sistemi di AI sarà sempre immensamente superiore rispetto alla concorrenza occidentale. Non sono del tutto sicuro di questo esito, non ne ho gli elementi, ma mi pare certo che in assenza di dati su cui lavorare non c’è tecnologia di AI che tenga.
In ambito notarile possiamo immaginare un sistema che, durante la preparazione di un atto, proponga clausole e soluzioni, ci segnali rischi fiscali o suggerisca alternative, facendo apparire raffiche di colorati pop-up su un grande schermo. E probabile che qualche Collega non veda l’ora di calarsi nel ruolo di Tom Cruise nel vecchio film Minority Report, e gestire lo schermo con scenografici gesti delle braccia: non è importante. Quel che è importante è che il sistema possa attingere a una messe di dati imponente, e possa apprendere dal comportamento degli utenti. Col tempo, potrà, per esempio, notare che la clausola del notaio Zecca-Carbulli sia molto meno gettonata di quella del notaio Rolandino, e proporrà la seconda con priorità sulla prima. Potrà osservare che atti costruiti nel modo X ricevono una tassazione più pesante di quelli costruiti nel modo Y, o più frequenti accertamenti, e ne darà avviso all’utente, che magari mai ha ricevuto un atto di quel tipo. Per far questo ha bisogno di dati, di molti dati; tendenzialmente, delle integrali risorse dati di centinaia, meglio, migliaia di notai.
Quale modello organizzativo risponde a un’esigenza di tal fatta?
Un’osservazione banale. Di solito le nuove tecnologie sono meglio cavalcate da modelli organizzativi altrettanto nuovi. Si cita spesso come una rara eccezione IBM, che è sulla cresta dell’onda da quando forniva ai nazisti le macchine per gestire la schedatura di ebrei, zingari, omosessuali e quant’altro (Edwin BLACK, IBM and the Holocaust, New York, Crown Publishers, 2001. Non mi capacito di come Big Blue abbia potuto dedicare un suo software di intelligenza artificiale a Thomas J. Watson, e cioè il Presidente dell’epoca, responsabile della scellerata politica). Ma di regola sono le start-up come Amazon a dominare il campo. Mentre io inauguravo il mio primo studio in quel di Lavagna, nel 1994, Jeff Bezos apriva la sua libreria online e consegnava i pacchi all’ufficio postale con una Chevy Blazer del 1987. Guidando, ragionava su quando avrebbe potuto permettersi un muletto.
Allo stesso modo, non credo proprio che la soluzione possa essere lo studio associato come lo consociamo oggi: non è pensabile che si possa così raggiungere la massa critica idonea a far funzionare davvero un sistema di AI. Occorreranno forme aggregative diverse, evidentemente interdistrettuali, limitate magari alla sola condivisione delle applicazioni AI. Difficile dire quanto sia probabile una siffatta evoluzione, e in quali tempi, e ancora più difficile cercare di immaginare se possa più facilmente svilupparsi presso CNN/Notartel, o in ambito sindacale, o magari dalle Software House, da iniziative spontanee o da una sinergia di tali contesti.
È probabile che i notai più giovani siano più attratti da simili prospettive, e non solo per una generica maggiore attitudine alle tecnologie, ma in quanto avranno presumibilmente minori perplessità a porre in comune il loro bagaglio di know-how. Tempo fa, a un panel della Scuola Sant’Anna di Pisa cui partecipavo, il responsabile IT di uno dei massimi studi legali italiani rivelò che la sperimentazione dell’AI da loro lanciata aveva come condizione essenziale la non condivisione dei dati con altri studi. Scelta plausibile per studi legali con centinaia di avvocati, e che per di più hanno spesso un focus molto accentuato su determinati settori; non mi pare praticabile per uno studio notarile, per quanto grande. Tra i problemi che si dovranno fronteggiare, quello di evitare forme di freeriding. La tentazione, per un importante raggruppamento di notai, di far iscrivere al sistema il notaio più giovane, condividendo poco e utilizzando molto, potrebbe essere particolarmente forte.
Sullo sfondo, come sempre, la possibilità che altri soggetti si impadroniscano delle tecnologie AI e offrano servizi giuridici con un’efficienza contro la quale sarà impossibile competere. La Google del diritto potrebbe essere già là fuori, da qualche parte, e non è affatto detto che le barriere legislative possano resisterle per sempre.
(*) Termine genovese che indica un mare con poca onda ma irregolarmente increspato in superficie. Se gli Inuit hanno molte parole per designare la neve, non dovrebbe stupire che sotto la Lanterna altrettanto accada per il mare.
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La Redazione di Federnotizie è composta da notai di tutta Italia, specializzati in differenti discipline e coordinati dalla direzione della testata, composta dai notai Arrigo Roveda e Domenico Cambareri.