Livelli: brevi note

Sommario:

      1. Cenni storici – nozione – fondamento

  1. Assimilazione del livello all’enfiteusi – normativa applicabile
  2. Estinzione ”ope legis” (Legge 222/1985 – ieri anche Legge 16/1974)
  3. Affrancazione giudiziale ed extragiudiziale dei livelli
  4. Usucapione
  5. Figure affini: gli usi civici
  6. Presenza di livello nell’ambito di procedura di esproprio e di esecuzione forzata
  7. Conclusioni

  1. Cenni storici – nozione – fondamento

Il livello  o “precario” è un istituto giuridico non avente una propria definizione normativa.

Il termine deriva dal latino libellus vale a dire “libretto”,  documento sul quale veniva trascritto il contratto di livello (fonte del rapporto), ove erano previsti e specificati gli obblighi gravanti sul livellario. In particolare, in “duo libelli pari tenore conscripti” (due libretti di uguale contenuto) venivano scritte tutte le condizioni del contratto cosicchè ciascuno dei contraenti ne avesse uno firmato.

Il livello venne istituito nel 368 d.C. dagli imperatori Valentiniano I e Flavio Giulio Valente.

Fu molto utilizzato nell’Impero Romano, per avere, poi, una grande diffusione nel Medioevo, soprattutto, in Italia, fino agli inizi del 1800.

Si trattava di un autentico contratto agrario, con cui il proprietario del fondo (detto Concedente o titolare del dominio diretto) concedeva ad altri (Livellario o titolare del dominio utile) il possesso e lo sfruttamento del fondo (terreno agricolo ma anche immobile urbano), ponendo a carico del livellario l’obbligo del pagamento di un canone (detto censo, di solito di modico valore) e/o del miglioramento del fondo.

All’origine questo istituto si configurava come una vendita per un certo termine, allo scadere del quale il contratto si poteva rinnovare versando nuovamente il corrispettivo (livello): al concedente rimaneva il dominio diretto e gli ritornava anche il dominio utile alla morte del livellario.

Il canone da pagare poteva essere in denaro o in natura ed in quest’ultimo caso non era fisso in quanto, a fine annata, il concessionario versava al concedente una percentuale del raccolto di alcuni prodotti.

La concessione poteva essere perpetua o temporanea, per venti anni, rinnovabili con la ricognizione al diciannovesimo anno, come meglio infra precisato.

Il livello veniva spesso stipulato avendo quale soggetto concedente un nobile, un monastero, una chiesa.

Per una definizione completa dei livelli, si riporta la definizione data da un giurista di inizio Novecento, tale Silvio Pivano, che approfondì e studiò la materia (recentemente riportata anche in una pronuncia di merito del Tribunale di Reggio Calabria del 9 novembre 2011):

Precarie e livelli erano infatti contratti che potevano intercedere fra persone della più varia condizione sociale, cadere su beni di qualunque entità e natura, essere di qualunque durata, con canone di qualsivoglia valore e specie, con o senza obbligo di miglioramento dei fondi, in una parola senza alcuna specifica determinazione sostanziale.

Per contro, nella grande varietà degli esempi, un elemento appariva costante e sicuro, quello della forma con cui dovevano essere conclusi”.

Quanto al fondamento dell’istituto, occorre ricordare che il livello al pari dell’enfiteusi aveva una precisa funzione sociale, quella di ripopolare territori abbandonati a causa specialmente di vicissitudini belliche nonché realizzare sugli stessi (di solito fondi di grande estensione e generalmente incolti e malsani) opere di miglioria.

  1. Assimilazione del livello all’enfiteusi – normativa applicabile

La versatilità di questo contratto diede luogo a confusione con altri tipi di contratto, specie con l’enfiteusi, diritto reale minore di godimento, disciplinato dal codice civile agli artt. 957 e seguenti (dal greco φυτεύω “piantare” εν dentro”), contratto con cui il concedente offre ad altri in godimento un fondo con l’obbligo di migliorarlo e di pagargli un canone periodico.

Secondo l’opinione prevalente il criterio discretivo tra livello ed enfiteusi, risiedeva, in origine, esclusivamente nel fatto che nel primo, concedente non era il dominus diretto ma il vassallo o l’enfiteuta, mentre nel secondo era proprio il proprietario del fondo; elemento discretivo questo, sempre più affievolitosi con il passare del tempo. Infine, nel livello poteva mancare l’obbligo del miglioramento del fondo.

Per queste sue caratteristiche il livello finì per confondersi e confluire, a pieno, nell’enfiteusi.

Livello ed enfiteusi vennero promiscuamente adoperati nell’uso comune tant’è che i due istituti, benchè – si ripete – originariamente distinti, finirono, già prima delle codificazioni moderne, per confondersi ed unificarsi, con la conseguente estensione anche ai livelli della generale disciplina dell’enfiteusi cosicchè non sussiste un’autonomia del contratto di livello, che s’identifica nella sostanza con quello di enfiteusi e ad esso si applica la disciplina del codice civile in tema di enfiteusi, come, peraltro, confermato anche dalla giurisprudenza della Suprema Corte (Cassazione civile n. 23752 del 14 novembre 2011; Cassazione civile n. 64 del 1997; Cassazione civile n. 1682 del 22 giugno 1963; Cassazione civile n. 1366 del 1961; in particolare Cassazione civile n. 9135 del 6 giugno 2012, secondo cui : “Il regime giuridico del cosiddetto “livello” va assimilato a quello dell’enfiteusi, in quanto i due istituti, pur se originariamente distinti, finirono in prosieguo per confondersi ed unificarsi, dovendosi, pertanto, ricomprendere anche il primo, al pari della seconda, tra i diritti reali di godimento”) nonché dalla normativa che nel tempo si è succeduta.

Abbiamo, infatti, il R.D 12 ottobre 1933 n. 1539 (Approvazione del regolamento per l’esecuzione delle disposizioni legislative sul riordinamento dell’imposta fondiaria) che all’art. 55, considera unitamente, a proposito dell’intestazione, l’enfiteuta e il livellario. Allo stesso modo le figure dell’enfiteuta e del livellario vengono equiparate dall’art. 29 del R.D. 8 dicembre 1938, n. 2153 (Approvazione del regolamento per la conservazione del nuovo catasto terreni) a proposito delle note di voltura. A ciò si aggiunga quanto disposto dall’art. 1 della legge 25 febbraio 1963, n. 327 (Norme sui contratti a miglioria in uso nelle province del Lazio) secondo il quale i rapporti a miglioria in uso nelle province del Lazio, comunque denominati e comunque costituiti (fra i quali vengono fatti rientrare appunto i livelli), nei quali il coltivatore abbia il possesso del fondo da oltre trent’anni, e abbia apportato al fondo migliorie in conformità dell’uso locale o della convenzione, sono dichiarati perpetui e sono applicabili ad essi, oltre le norme della presente legge, quelle contenute nel titolo IV del libro terzo del codice civile e nella legge 11 giugno 1925, n. 998, e successive modificazioni e integrazioni.

Concludendo, si può dire che il livello sia un istituto di fatto corrispondente all’enfiteusi, confluito nella figura dell’enfiteusi, al quale è possibile applicare, in maniera diretta e non analogica, la disciplina e normativa prevista per l’enfiteusi dal codice civile e dalle varie leggi speciali che si sono succedute nel tempo.

In virtù dell’applicazione delle norme codicistiche dettate in materia di enfiteusi, deriva, in via di prima approssimazione, che all’enfiteuta (o livellario), oltre al diritto di possedere ed usare il fondo (salvo l’obbligo di migliorarlo e di pagare il canone), è attribuito il diritto di affrancazione, cioè il diritto di divenire proprietario dell’immobile mediante il pagamento di una somma di denaro pari a quindici volte l’ammontare del canone (art. 9 Legge 18 dicembre 1970 n. 1138); si tratta di un diritto potestativo cui il concedente non può opporsi. A favore del concedente è, invece, previsto il diritto di chiedere giudizialmente la devoluzione del fondo, cioè l’estinzione dell’enfiteusi e la restituzione del bene, qualora l’enfiteuta deteriori o non migliori il fondo ovvero sia in mora nel pagamento di due annualità (art. 972 c.c.). Si ricorda, tuttavia, che la domanda di devoluzione non preclude all’enfiteuta il diritto di affrancare (previo pagamento della relativa somma), con prevalenza, quindi, di tale ultimo diritto su quello di devoluzione.

  1. Estinzione ”ope legis” (Legge 222/1985 – ieri anche Legge 16/1974)

Gli istituti dell’enfiteusi e del livello sono, oggi, pressoché caduti in disuso e nella quasi totalità dei casi le prestazioni dovute in forza dei rapporti costituiti nel passato non vengono più eseguite da tempo immemorabile.

In Italia, dalla seconda metà del Novecento, il contratto di livello risulta dimenticato con livellari non paganti più canone alcuno.

Privati ed enti ecclesiastici hanno abbandonato, già da tempo, ogni forma di pretesa sui loro diritti in quanto è divenuto fortemente negativo mantenere viva la macchina della riscossione a fronte di un gettito assolutamente irrisorio ed inadeguato, oltre che di non facile realizzazione. Anche gli Enti pubblici ed i comuni, in particolare, lo avevano abbandonato, ma di recente si è assistito ad un revirement, stante la necessità di monetizzare e fare cassa.

Ciò nonostante può ancora capitare, anche con una certa frequenza, di imbattersi in certificati catastali che indichino la presenza di un concedente o direttario e di un enfiteuta o livellario.

Può affermarsi che sovente il livello sia di fatto “inesistente” benchè l’indicazione dello stesso permanga solo all’attualità nelle carte catastali in quanto nessuna  traccia, neppure, a cercarla con l’accuratezza di un certosino, è rinvenibile nei Registri Immobiliari, salvo che l’esistenza di detti rapporti risulti dal testo di un qualche vecchio atto di provenienza o dalle visure ipotecarie sulla base di ipoteche ultraventennali mai rinnovate, a garanzia del pagamento dei canoni.

Per questo, il Legislatore nel 1974 con la Legge 7 gennaio 1974 n. 3 ha convertito, limitatamente ai livelli della Regione Veneto, in un diritto di credito da estinguere in un anno e prescrivibile in due, salvo diversa volontà del proprietario utilista, i diritti dei concedenti dei rapporti regolati dalla Legge 15 febbraio 1958 n. 74 e quelli relativi ad altre prestazioni fondiarie perpetue e con la Legge 29 gennaio 1974 n. 16 ha stabilito l’estinzione dei rapporti perpetui e personali costituiti anteriormente al 28 ottobre 1941, che fossero la fonte di un diritto delle amministrazioni e delle aziende autonome dello stato di riscuotere canoni enfiteutici, censi, livelli e altre prestazioni in denaro o in derrate, in misura inferiore a Lire mille (£ 1.000=) annue.

Con la “Rinuncia ai diritti di credito inferiori a lire mille”, si è, pertanto, contribuito ad eliminare, per ragioni di antieconomicità, questo contratto, in capo a beni delle amministrazioni e delle aziende autonome dello Stato (comprese l’amministrazione del fondo per il culto, l’amministrazione del fondo di beneficenza e di religione nella città di Roma e l’amministrazione dei patrimoni riuniti ex economali), provvedendo, oltre “alla chiusura delle partite di credito” anche alla cancellazione delle relative annotazioni in Catasto, con conseguente acquisto da parte degli ex livellari del titolo di pieni proprietari dei terreni loro concessi in godimento.

Come confermato dalla Corte dei Conti (Sez. Reg. contr. Campania, parere n. 18/2006 del 20 luglio 2006), destinatari della Legge 29 gennaio 1974 n. 16 erano unicamente le Amministrazioni e le Aziende autonome dello Stato con esclusione degli enti pubblici territoriali.

La normativa di cui alla Legge 29 gennaio 1974 n. 16, sopra menzionata, è stata, poi, abrogata dall’Art. 24 del D.L. 25 giugno 2008 n. 112, convertito, con modificazioni, dalla Legge 6 agosto 2008 n. 133 (vedi Allegato A).

Non abrogato risulta, invece, oggi, l’Art. 60 della Legge 20 maggio 1985 n. 222, il quale testualmente così recita:

Sono estinti, dal 1° gennaio 1987, i rapporti perpetui reali e personali in forza dei quali il Fondo edifici di culto, quale successore dei Fondi soppressi di cui al precedente articolo 54 (Fondo per il culto e il Fondo di beneficenza e religione nella città di Roma, le Aziende speciali di culto destinate, sotto varie denominazioni, a scopi di culto, di beneficenza e di religione) e dei patrimoni di cui all’articolo 55 (Il patrimonio degli ex economati dei benefici vacanti e dei fondi di religione), ha diritto di riscuotere canoni enfiteutici, censi, livelli e altre prestazioni in denaro o in derrate di ammontare non superiore al lire sessantamila annue. L’equivalente in denaro delle prestazioni in derrate è determinato con i criteri di cui all’articolo 1, secondo comma, della legge 22 luglio 1966, n. 607. Gli uffici percettori chiudono le relative partite contabili, senza oneri per i debitori, dandone comunicazione agli obbligati e agli uffici interessati”.

Stante le risultanze ipocatastali, occorre, tuttavia, accertare e verificare l’effettiva sussistenza/esistenza di tali rapporti, distinguendo tra tre tipologie di livelli:

a) Livelli costituiti sui fondi localizzati in Veneto

Se si tratta di livelli costituiti su fondi siti nelle province venete (e friulane) di Belluno, Padova, Rovigo, Treviso, Udine, Venezia, Verona o Vicenza, trova applicazione la Legge 7 gennaio 1974 n. 3, in forza della quale il diritto del livellario è stato automaticamente (ope legis) convertito in diritto di piena proprietà, salvo il diritto di credito pecuniario a favore del concedente (avente ad oggetto il pagamento di una somma corrispondente a venti volte il canone annuo), diritto di credito che avrebbe dovuto essere estinto entro un anno dall’entrata in vigore della legge in esame salva prescrizione nei due anni successivi.

Dispongono gli Artt. 1, 2 e 3 della citata Legge n. 3 del 1974: «Art. 1 – I diritti dei concedenti o direttari relativi ai rapporti regolati dalla legge 15 febbraio 1958, n. 74, nonché quelli relativi ad altre prestazioni fondiarie perpetue, sono convertiti nel diritto di credito di cui all’articolo 2 della presente legge e salvo quanto disposto dal successivo articolo 3.

Sono parimenti convertiti nel diritto di credito di cui all’articolo 2 della presente legge e salvo il disposto del successivo articolo 3 i canoni sinora dovuti dai proprietari di fondi situati nelle province venete a titolo di decime, quartesi ed altre prestazioni fondiarie perpetue.

Art. 2 – I titolari dei diritti di cui all’articolo precedente divengono creditori degli attuali proprietari utilisti di una somma corrispondente a 20 volte il canone annuo che, ai sensi delle vigenti leggi, sia dovuto per l’anno 1970. Il credito deve essere estinto entro un anno dall’entrata in vigore della presente legge e si prescrive nei due anni successivi.

Art. 3 – I proprietari utilisti che non intendono assumere il debito di cui all’articolo precedente debbono darne notizia alla controparte a prestarsi entro un anno dall’entrata in vigore della presente legge all’atto di ricognizione di cui all’articolo 969 del codice civile. In tal caso i diritti indicati nell’articolo 1 sono regolati dalle disposizioni sull’enfiteusi contenute negli articoli 957 e seguenti del codice civile e successive disposizioni in materia.».

b) Livelli costituiti da amministrazioni statali

Mentre la legge n. 3 del 1974 ha convertito il diritto del concedente in un diritto di credito con conseguente acquisto della piena proprietà da parte del livellario, le disposizioni di cui agli Artt. 1 della Legge 29 gennaio 1974 n. 16 (poi abrogata) e 60 della Legge 20 maggio 1985 n. 222, disponendo semplicemente l’estinzione dei rapporti in oggetto, sembrerebbero comportare, invero, che la proprietà dei fondi ritorni – libera da ogni vincolo – in capo all’amministrazione concedente-livellante.

Non è dubbio però che la ratio, e, quindi, la reale portata della norma, sia invece quella che la piena proprietà sia acquisita definitivamente dall’enfiteuta-livellario. Bisogna, infatti, considerare che la disposizione è dettata genericamente per tutti i rapporti perpetui reali e personali, e, quindi, anche per i rapporti in forza dei quali il diritto dell’amministrazione statale si configura come un mero onere a carico del proprietario, sicché non avrebbe senso che la disposizione in esame in un caso si risolvesse a favore dell’amministrazione statale e nell’altro a favore del privato cittadino.

Anche in questi casi, in realtà, gli uffici statali competenti avrebbero dovuto chiudere automaticamente le relative partite contabili, dandone comunicazione agli obbligati ed agli altri uffici interessati (cfr. art. 2 L. n. 16 del 1974 e art. 60, comma 3, L. n. 222 del 1985) e così ottenere l’aggiornamento della ditta catastale.

In relazione a quanto disposto dall’art. 60, comma 3, L. n. 222 del 1985, deve ritenersi, in ogni caso possibile, ottenere la cancellazione di ogni intestazione riguardante i diritti in oggetto, così come per i livelli veneti, sulla base di una semplice istanza.

c) Livelli concessi da enti ecclesiastici o soggetti diversi dall’amministrazione statale, salvo quanto infra precisato con riguardo ai Comuni per i terreni gravati da usi civici.

Qualora il concedente sia un ente ecclesiastico (parrocchia) o un soggetto diverso dall’amministrazione statale (si pensi ad un comune), il livello deve considerarsi ancora sussistente, giacchè le leggi appena menzionate nulla hanno stabilito in ordine a tale categoria di livello.

Con la conseguenza che per liberare tali fondi occorrerà atto di affrancazione ad hoc, con le precisazioni di cui infra.

Tale essendo rimasta la situazione sotto il profilo legislativo, è da domandarsi se sulla base di detta disposizione anche gli enti locali, non espressamente ivi menzionati, possono ritenersi, comunque, facoltizzati a rinunciare, anche nei limiti di somma sopra richiamati, alla riscossione di canoni, censi, livelli o altro del genere di cui siano titolari. Al riguardo, con riferimento al principale interrogativo posto in relazione ai comuni, è stato, infatti, da taluno affermato che non appare giustificato che l’Ente, sulla base di quanto disposto dalla citata legge n.16 del 1974, deliberi in via autonoma e generalizzata l’estinzione di rapporti perpetui e personali, cui è collegata la titolarità dell’Ente relativamente a canoni e livelli e posti a carico di cittadini titolari di diritti reali. Va ricordato che i canoni ed i livelli, di che trattasi, in genere nell’Italia meridionale derivano dalla allodiazione di antiche proprietà collettive che, come tali, godono della imprescrittibilità nonché della inalienabilità e della inusucapibilità.

Il Comune, in quanto rappresentante della comunità e referente di tali antiche proprietà collettive, o meglio di quanto rimane di esse dal punto di vista pubblicistico, è titolare di censi, livelli, canoni o altre prestazioni similari, indipendentemente dall’esistenza o meno del titolo di proprietà in testa al comune del singolo immobile. Si tratterebbe peraltro di rinunzia unilaterale, non espressamente prevista dalla norma di legge invocata, che, in quanto derogatoria rispetto ai principi generali posti a tutela della proprietà pubblica, non è suscettibile di interpretazione analogica. Il che non toglie che sia avvertita l’esigenza che l’Ente richiedente, anche in collaborazione con gli Uffici regionali competenti in materia, provveda ad una ricognizione delle singole diverse posizioni relativamente alle quali risulti titolare di canoni, censi, livelli o altre pretese del genere, al fine della riscossione degli stessi o della loro affrancazione su iniziativa di chi è soggetto a tali oneri e con le modalità proprie di quest’ultimo istituto“.

  1. Affrancazione giudiziale ed extragiudiziale dei livelli

Tanto premesso, va, quindi, affrontata la questione di cosa accada nell’ipotesi in cui non operi l’estinzione ope legis di cui sopra e, quindi, non ricorrano i presupposti sopradescritti (ossia non si tratti di livelli veneti ed il concedente non sia un’amministrazione statale) e da certificati catastali, da visure ipotecarie o da un atto di provenienza appaia la sussistenza a carico di un fondo di oneri livellari dovuti in forza di rapporti contrattuali lontanissimi nel tempo e le cui prestazioni, del pari, siano non più eseguite da tempi lontanissimi.

Ci si chiede: Come è possibile effettuare la cancellazione del livello? E’ sicuro l’acquisto di un terreno gravato da livello? Quali cautele occorre tuzioristicamente adottare?

Va innanzitutto precisato che l’approfondimento di dottrina e giurisprudenza sull’alienazione di immobili gravati da livelli parte dal presupposto che l’alienante non sia il concedente, ma lo stesso livellario. Invero, di norma, è il livellario che è nel possesso del fondo da tempo immemore ed è lui, quindi, che potrebbe avere intenzione di alienarlo, ritenendosene di fatto proprietario.

In tali casi la soluzione sicuramente preferibile per ottenere l’estinzione dei vincoli in questione (e la conseguente cancellazione dell’intestazione catastale) è il ricorso all’affrancazione.

L’affrancazione può derivare da una procedura giudiziale o più semplicemente da un accordo privato con il concedente, magari anche di natura transattiva ove, in mancanza dell’originario titolo costitutivo del diritto di livello, non si abbia certezza sull’originario ammontare del canone.

Il vincolo derivante dall’imposizione del livello, per l’opinione assolutamente prevalente, ha natura di obbligazione propter rem e, pertanto, è senza dubbio opponibile all’acquirente. Ciò significa che chi acquista il fondo dal livellario è, comunque, tenuto al pagamento del canone nei confronti del concedente. L’obbligazione di pagamento del canone “segue” il fondo, chiunque diventi il livellario.

La soluzione preferibile per ottenere l’estinzione dei vincoli in esame e la conseguente cancellazione dell’intestazione catastale è senz’altro quella di ricorrere ad un atto di affrancazione (art. 971 c.c.), data l’equiparabilità tra livellario ed enfiteuta.

La disciplina dettata per l’affrancazione dell’enfiteusi si applica direttamente all’affrancazione del livello oltre che per la sostanziale identità dei due istituti, anche per il rinvio che alle leggi speciali fa – per il tramite dell’art. 1866 cpv. («Le modalità di riscatto sono stabilite dalle leggi speciali.») – l’art. 1869 c.c. («Le disposizioni degli artt. 1864, 1865, 1866, 1867 e 1868 si applicano a ogni altra annua prestazione perpetua costituita a qualsiasi titolo, anche per atto di ultima volontà.»).

Il diritto di affrancazione è un diritto personale potestativo ob rem consistente nella facoltà concessa all’enfiteuta/livellario di riscattare il fondo corrispondendo al concedente una somma rappresentante la capitalizzazione del canone annuo, precisamente il pagamento di una somma di denaro la cui individuazione è, peraltro, complicata dal succedersi di diverse leggi di rivalutazione e dal loro annullamento ad opera della Corte costituzionale (la Corte Cost. con decisione n. 160 del 2008, ha dichiarato illegittimi gli artt. 5 e 6 della L. n. 1138 del 1970, nella parte in cui, per le enfiteusi urbane costituite anteriormente al 28 ottobre 1941, non prevedono che il valore di riferimento per la determinazione del capitale per l’affrancazione delle stesse sia periodicamente aggiornato mediante l’applicazione di coefficienti di maggiorazione idonei a mantenerne adeguata, con una ragionevole approssimazione, la corrispondenza con la effettiva realtà economica).

Trattasi di un diritto al cui esercizio il concedente non può opporsi. È poi vero anche l’inverso, ossia che il concedente non può obbligare il livellario ad affrancare se quest’ultimo intende pagare il canone annuo.

Allo stato, giusta l’art. 9 della L. n. 1138 del 1970, il corrispettivo di affranco delle enfiteusi rustiche si ottiene moltiplicando per quindici volte il canone annuo determinato come segue:

– per i rapporti sorti anteriormente al 28 ottobre 1941 il canone non può superare l’ammontare corrispondente al reddito dominicale del fondo determinato con riferimento alla qualifica catastale risultante al 30 giugno 1939 ed aggiornato mediante l’applicazione di coefficienti di maggiorazione idonei a mantenerne adeguata la corrispondenza con la effettiva realtà economica (art. 1 L. n. 607 del 1966, da interpretarsi alla luce di Corte Cost., n. 143 del 1997, e art. 1 Legge n. 1138 del 1970);

– per i rapporti sorti successivamente al (rectius: a partire dal) 28 ottobre 1941 il canone non può superare l’ammontare corrispondente al reddito dominicale del fondo, determinato con riferimento alla qualifica ed alla classe catastali esistenti al momento della costituzione del rapporto ed aggiornato mediante l’applicazione di coefficienti di maggiorazione idonei a mantenerne adeguata la corrispondenza con la effettiva realtà economica.

Il canone delle enfiteusi costituite dal 28 ottobre 1941 non può comunque essere inferiore alla quindicesima parte dell’indennità di espropriazione.

A questo proposito, occorre, poi, distinguere la determinazione del canone in base alla diversa tipologia di livello/enfiteusi:

  • enfiteusi su fondo agricolo: la normativa prevede che la misura del canone non può essere sproporzionata rispetto al valore di mercato del bene su cui grava l’enfiteusi, ma che questo sia periodicamente aggiornato mediante l’applicazione di coefficienti di maggiorazione idonei a mantenere adeguata, con una ragionevole approssimazione la corrispondenza all’effettiva realtà economica. (Corte Costituzionale sent. 406 del 7 aprile 1988 e sent. 143 del 23 maggio 1997). Proprio in relazione a queste sentenze è stato dichiarato illegittimo il metodo di calcolo che prendeva il reddito dominicale come valore di riferimento, proprio perché obsoleto e non più rispondente agli attuali parametri di mercato (es. Valore Agricolo Medio);
  • enfiteusi su fondo edificabile: il valore del canone di dette aree non può essere determinato sulla base delle enfiteusi rustiche onde evitare operazioni speculative, ma ad esso si deve pervenire applicando al valore dell’area considerata edificabile un equo saggio di rendimento (Consiglio di Stato parere n. 661/98 del 9 giugno 1998, Ministero delle Finanze nota del 26 ottobre 2000 (es. valore I.C.I.);
  • enfiteusi su fondo edificato: i fabbricati costruiti su terreni gravati da livello non possono essere considerati migliorie (Avvocatura dello Stato nota n. 8475 del 19 dicembre 1991), l’attività di miglioria che è richiesta all’enfiteuta, deve ritenersi intrinsecamente connessa alla natura del fondo stesso; mentre esula completamente da ciò ogni attività di trasformazione edilizia (Consiglio di Stato parere n. 661/1998). Il fabbricato pertanto risulta acquisito per accessione dal concedente in quanto proprietario dell’area.

Come sopra anticipato, le modalità di affrancazione sono stabilite dalle leggi speciali (cfr. il rinvio operato dall’art. 971 ult. per. c.c.) e si distinguono in:

a) giudiziale, secondo il procedimento speciale disciplinato dalla L. n. 607 del 1966;

b) extragiudiziale, nel rispetto della disciplina – tuttora in vigore – prevista dalla Legge 11 giugno 1925 n. 998 e dal R.D. 7 febbraio 1926 n. 426.

L’affrancazione extragiudiziale è un contratto, che si realizza con l’incontro della volontà dell’enfiteuta/livellario e del concedente; la lettera della legge, per cui l’affrancazione «si opera» mediante il pagamento del prezzo (art. 9 L. n. 1138 del 1970), lascia intendere che si tratti di un contratto reale, il cui perfezionamento richiede, oltre il consenso delle parti, la consegna del denaro.

L’atto deve farsi per iscritto a pena di nullità (art. 1350 n. 6 c.c.) e deve essere reso pubblico col mezzo della trascrizione (art. 2643 n. 7 c.c.; codice di trascrizione n. 102).

L’art. 15 della Legge 11 giugno 1925 n. 998 espressamente dispone che, nella procedura di affrancazione, l’atto stipulato tra il concedente e l’affrancante, o, in mancanza di esso, la domanda giudiziale dovrà essere trascritta a norma degli articoli 2659 e seguenti del Codice Civile; la sentenza deve invece essere annotata a margine della trascrizione della domanda giudiziale.

Sempre ai sensi della medesima legge, gli effetti giuridici dell’affrancazione si produrranno, rispetto ai terzi, dalla data della trascrizione dell’atto stipulato tra le parti o dalla data della annotazione della sentenza.

Quanto alle modalità operative di affranco, si segnala quanto contenuto nella Circolare dell’Agenzia del Territorio n. 2/T del 26 febbraio 2004 in tema di Affrancazione usi civici – Forma dei relativi  atti  –  Eseguibilità  delle formalità ipotecarie – Trattamento tributario:

La parte interessata (cosiddetta legittimaria) presenta al Comune la richiesta di affrancazione; successivamente, la Giunta Comunale,  mediante  delibera, aderisce  alla  richiesta  e  individua   l’importo   corrispondente   alla capitalizzazione. Sulla base  della  delibera  di  Giunta,  alcuni  Comuni  procedono  al riconoscimento   dell’affrancazione   attraverso   l’emanazione   di    una

determinazione dirigenziale. I dubbi sollevati dagli uffici coinvolgono, in particolare, i  seguenti

aspetti:

       –  idoneità  della  determinazione  dirigenziale  quale  titolo  per l’affrancazione;

       – trascrivibilità degli atti di affrancazione;

       – trattamento fiscale  dell’atto  di  affrancazione,  con  specifico riferimento ai tributi dovuti per l’esecuzione delle formalità ipotecarie.

L’Avvocatura Generale  dello  Stato,  interpellata  con  riguardo all’idoneità  della  determinazione  dirigenziale  quale  titolo   idoneo   per l’affrancazione, con consultiva CS/2749/02 del 15 gennaio 2004, ha  in  proposito osservato come, la determinazione dirigenziale essere considerata titolo idoneo per l’affrancazione e per il conseguimento degli effetti espansivi del diritto di proprietà ad essa correlati.

In sintesi, qualora il concedente sia un ente pubblico territoriale o un ente ecclesiastico e si rientri nella casistica di cui alle Leggi innanzi citate, le Agenzie del Territorio (Catasto) di solito ritengono sufficiente e idonea una delibera o determina proveniente dall’ente concedente, che riconosca l’avvenuta estinzione del diritto al fine della cancellazione dalla partita catastale del livello.

Negli altri casi sarà necessario procedere ad atto negoziale di affrancazione dal canone (enfiteutico) al fine di procedere all’espletamento di tutti gli incombenti quali trascrizione dell’atto e voltura catastale dello stesso.

Si riportano di seguito altre circolari/risoluzioni dell’Agenzia del Territorio in tema di affrancazione:

* Circolare Agenzia del Territorio prot. 29104 dell’11/05/2011 (affrancazione canoni enfiteutici, censi, livelli – determinazione canoni e corretta rivalutazione del reddito dominicale)

* Risoluzione Agenzia del Territorio n. 2/T del 29 aprile 2008 (Tasse ipotecarie e tributi speciali catastali – Affrancazione di usi  civici – Trattamento tributario delle formalità ipotecarie e catastali –  Esenzione)

* Risoluzione Agenzia del Territorio n. 1/T dell’8 marzo 2006 (Imposta di trascrizione – Usi civici – Provvedimenti  di  legittimazione – Modalità di trascrizione).

L’affrancazione ha natura derivativo-traslativa: non importa l’estinzione del dominio utile spettante al concedente ma ne determina il passaggio a favore dell’affrancante, il quale, perciò, lo acquista a titolo derivativo.

Si ricorda che ex Art. 15 L. n. 998 del 1925, il conservatore dei registri immobiliari non può procedere alla relativa formalità ove la parte, che chiede la trascrizione, non provi che sia stato effettuato il pagamento del prezzo di affrancazione.

Ne consegue fra l’altro: che l’acquisto del dominio diretto da parte dell’enfiteuta opera a favore dell’eventuale comunione legale con il coniuge; che all’atto devono applicarsi le menzioni ed allegazioni prescritte dalla legislazione urbanistica per gli atti traslativi; che gli atti di affrancazione scontano le imposte di registro, ipotecaria e catastale nella misura ordinaria (con le aliquote proprie a seconda che trattasi di terreno agricolo, edificabile o di fabbricato ex art. 1 Tariffa – Parte I, allegata al D.P.R. n. 131 del 1986).

Ex art. 18 Legge 998/1925 le spese dell’affrancazione sono a carico dell’affrancante.

La dottrina maggioritaria e la giurisprudenza ritengono necessario per l’affrancazione del fondo il consenso del concedente, manifestato in un atto negoziale o in una sentenza costitutiva del diritto.

Altri autori sostengono, invece, che per l’affrancazione del fondo sia sufficiente la volontà dell’affrancante, manifestata attraverso la comunicazione della volontà di affrancare inviata al concedente ed il pagamento della somma dovuta per l’affrancazione.

Altri ritengono che non sia sufficiente una dichiarazione unilaterale dell’enfiteuta/livellario o del concedente ma che occorra l’intervento in atto di entrambi.

Il Legislatore detta, poi, una disciplina particolare in tema di ipoteche. Ex Art. 2815, comma 1, c.c., nel caso di affrancazione le ipoteche gravanti sul diritto del concedente si risolvono sul corrispettivo di affranco; le ipoteche gravanti sul diritto dell’enfiteuta si estendono alla piena proprietà.

Si segnala come nella pratica, la stipulazione di un atto di affrancazione possa risultare alquanto difficile per i seguenti motivi:

1) la determinazione del corrispettivo di affranco, sulla base dei criteri come sopra indicati, è molto complicata. È dubbio se il prezzo di affrancazione, sicuramente inderogabile in sede giudiziale, possa invece essere diversamente concordato fra le parti – in misura superiore od inferiore a quella stabilita dalla legge – in sede contrattuale (extragiudiziale).

Al riguardo, il Consiglio Nazionale del Notariato sostiene la tesi positiva (liberale), (si veda lo Studio n. 469 bis-479bis del 1996 “Accertamento di congruità dell’indennità di affrancazione di fondo enfiteutico” mentre altra autorevole Dottrina sostiene la tesi negativa, argomentando dal combinato disposto degli artt. 957 comma 2 c.c., 971 ult. per. c.c. e 9 L. n. 1138 del 1970: l’art. 957 stabilisce che non è derogabile l’art. 971; l’art. 971 rinvia alle leggi speciali per le modalità dell’affrancazione; l’art. 9 L. n. 1138 stabilisce che l’affrancazione si opera mediante il pagamento di una somma pari a 15 volte l’ammontare del canone (determinato secondo i criteri in precedenza indicati);

2) nella maggior parte dei casi non è dato rinvenire il titolo costitutivo del rapporto, laddove – come confermato dalla giurisprudenza – colui il quale richiede l’affrancazione del fondo in enfiteusi è tenuto a dimostrare la propria qualità di enfiteuta, fornendo la prova dell’esistenza del titolo costitutivo a proprio favore (si veda in tal senso Cassaz. n. 4197 del 1982) ovvero, nella fattispecie di atti di successione inter vivos o mortis causa, che il diritto sia a lui pervenuto attraverso una serie ininterrotta di trasferimenti. Risulta del tutto insufficiente la mera risultanza catastale del livello.

In tal caso, si potrebbe pensare alla stipulazione di un contratto di transazione, con cui a fronte dell’incertezza circa la legittima titolarità del bene e, quindi, al dichiarato fine di prevenire una lite al riguardo, in corrispettivo di una somma di denaro o di una qualche altra controprestazione, il (preteso) concedente rinunci a favore dell’enfiteuta-livellario ad ogni diritto sul fondo riconoscendone lo stesso come pieno ed esclusivo proprietario.

  1. Usucapione

Il diritto del concedente a riscuotere il canone non si estingue per usucapione per il preciso disposto dell’art. 1164 del Codice Civile; si può usucapire solo il diritto dell’enfiteuta, mentre il dominio diretto è imprescrittibile; ai sensi dell’art. 1164 del Codice Civile l’enfiteuta non può usucapire il diritto del concedente a seguito di mancato pagamento del canone; secondo svariate pronunce della Suprema Corte (Cassaz. 4231/76 – Cassaz. 323/73 – Cassaz. 2904/62 – Cassaz. 2100/60 – Cassaz. 177/46), tutte concordi, “l’omesso pagamento del canone, per qualsiasi tempo protratto, non giova a mutarne il titolo del possesso, neppure nel singolare caso sia stata attribuita dalle parti efficacia ricognitiva“.

L’esercizio del potere di ricognizione di cui all’art. 969 c.c. si applica solo per le enfiteusi a tempo (casi singolari), e non riguarda, quindi, le enfiteusi perpetue: ai sensi dell’art. 958 del Codice Civile le enfiteusi sono perpetue quando non viene stabilita la durata; le enfiteusi in cui non viene fissato un termine sono a tutti gli effetti perpetue; come tali, non va esercitato nessun potere di ricognizione in quanto, ai sensi dell’art. 1164 del Codice Civile, se non muta il titolo del possesso dell’enfiteuta, tale enfiteuta non può usucapire la proprietà e, quindi, il canone non è prescritto; la ricognizione è un diritto riconosciuto al concedente (e non un dovere) per impedire all’ex enfiteuta (ma solo per le enfiteusi a tempo, dopo la loro scadenza) di usucapire il terreno. “Trattasi, quindi, di una mera facoltà e non di un obbligo, nel senso che il concedente, se non vuole esercitarla, non perde, per ciò solo, il suo diritto sulla cosa” (Cassazione n. 2904 del 10 ottobre 1962).

La dottrina e la giurisprudenza si sono soffermate sulla prescrittibilità del diritto del concedente ad ottenere il pagamento del livello. L’opinione assolutamente prevalente propende per la negativa, nel senso che non può prescriversi il diritto del concedente (assimilabile al diritto di proprietà) ad ottenere il pagamento del livello. Quindi, nel caso in cui il livellario, o i suoi eredi o aventi causa, abbiano continuato a possedere il fondo, senza tuttavia pagare il canone per più di venti anni, il diritto del concedente di ricevere il canone non si prescrive, trattandosi di una facoltà perpetua, inerente il diritto di proprietà del concedente e ciò solo non basta per rendere usucapibile il fondo da parte del livellario.

Più precisamente, in merito alla prescrittibilità del livello quale prestazione periodica, occorre distinguere tra obbligazione delle singole annualità scadute e obbligazione del canone nel suo complesso. Mentre la prima, essendo personale, è soggetta alla prescrizione quinquennale (art. 2948 n. 4 c.c.), la dottrina ritiene la seconda imprescrittibile, in quanto strettamente connessa con il diritto del concedente.

Poiché il diritto del concedente non si estingue per non uso, il mancato pagamento del canone, benchè protratto per venti anni, non può estinguere il diritto del concedente alla sua percezione.

Dal canto suo il livellario, naturalmente, non diventa proprietario per il solo fatto di non aver pagato il canone, mentre può usucapire il dominio diretto purchè abbia mutato il titolo del suo possesso (interversio possessionis) e in presenza degli altri presupposti di legge (passare del tempo, possesso continuo ed ininterrotto e così via).

E’, inoltre, possibile immaginare l’usucapione del diritto di piena proprietà da parte del concedente, quando ricorrano i presupposti di legge.

L’acquisto del diritto del concedente (liberamente trasferibile senza consenso del livellario) è certamente più sicuro dell’acquisto del diritto del livellario. Acquistando il diritto del concedente si acquisisce anche il diritto al pagamento del canone riferibile quantomeno all’ultimo quinquennio.

Il problema, però, è che si resta astrattamente esposti al pericolo dell’affrancazione, diritto, questo, del livellario di natura potestativa e, quindi, non ostacolabile da parte del concedente, che, in questo caso ha solo diritto ad ottenere la somma dovuta a titolo di affrancazione.

Possiamo affermare che il ricorso all’affrancazione risulta superfluo quando sussistono i presupposti perché la piena proprietà è stata acquistata dall’enfiteuta-livellario per usucapione in conseguenza del compimento di un qualche atto di interversione del possesso (art. 1164 c.c.). È il caso, per esempio, in cui l’originario enfiteuta-livellario abbia ceduto ad altri per atto tra vivi la piena proprietà del fondo in oggetto senza fare alcuna menzione dei diritti in questione o comunque garantendo l’immobile come libero da qualunque gravame.

Sappiamo che l`interversio possessionis è il mutamento della detenzione in possesso o del possesso corrispondente all’esercizio di un diritto reale su cosa altrui in possesso coincidente all’esercizio del diritto di proprietà.
Da tale momento comincerà a decorrere il tempo necessario per l’usucapione del diritto di proprietà (Artt.1141 e 1164 cod. civ.).
Per aversi ciò necessita una causa proveniente da un terzo ed una opposizione del possessore contro il diritto del proprietario, non essendo sufficiente un cambiamento interno  all’enfiteuta dell’animus possidendi.
L’opposizione nei confronti del proprietario deve essere inequivocabilmente diretta contro di lui, in modo da essere portata a sua conoscenza.

Qui bisognerebbe esaminare caso per caso.

Una prima ipotesi si può avanzare nel caso di trasformazione sostanziale ed irreversibile del fondo, una trasformazione, cioè, tale che non possa essere inquadrata come miglioria. Infatti secondo quanto affermato dall’Avvocatura dello Stato con nota 8475 del 19 dicembre 1999 l`attività di miglioria che è richiesta all’enfiteuta deve ritenersi intrinsecamente connessa alla natura del fondo stesso. Nella stessa nota il predetto Organo dello Stato afferma che i fabbricati costruiti su terreni gravati da livello non possono essere considerati migliorie, in quanto esula completamente dagli obblighi gravanti sull’enfiteuta – livellario, ogni attività di trasformazione edilizia.

Ma questo può considerarsi una “interversio possessionis” ? L’interrogativo trova risposta positiva nelle varie pronunzie della corte di Corte di Cassazione (da ultimo Cassaz. n. 27251 del 18 dicembre 2011, n. 5419/2011 e n. 1296/2010) per la quale l’interversione in possesso può aversi anche attraverso il compimento di sole attività materiali, se esse rivelano in modo inequivocabile e riconoscibile dall’avente diritto l’intenzione del detentore di esercitare il potere sulla cosa esclusivamente “nomine proprio” vantando, però, per sè il diritto corrispondente al possesso in contrapposizione con quello del titolare della cosa. Il fatto di edificare, afferma la giurisprudenza, costituisce esercizio di una facoltà inerente al diritto di proprietà, con l’effetto che essa si manifesta anche verso l’esterno mediante una condotta riconoscibile da  parte di tutti e, quindi, anche dal proprietario.
La Corte di Cassazione ha manifestato costantemente anche nel passato che la interversione della detenzione in possesso si può realizzare anche mediante il compimento di attività materiale ma è necessario che l`attività materiale sia tale da manifestare inequivocabilmente l’intenzione di esercitare il potere esclusivamente nomine proprio.

Ciò si realizza nei casi in cui per esempio sia lo stesso Comune concedente ad autorizzare al livellario enfiteuta, qualificatosi proprietario richiedente, la realizzazione di un  manufatto edilizio rilasciando il permesso di costruire.

Merita massima attenzione il fenomeno, quasi generalizzato per chiunque risulti concedente (fatta eccezione per il Demanio e per i terreni soggetti ad uso civico collettivo), secondo il quale l’originario livellario od enfiteuta, ritenendosi a torto o a ragione proprietario del fondo, del quale ha avuto il godimento assoluto e per il quale ha smesso da anni di pagare il canone,  abbia trasferito  non il suo diritto di enfiteuta, ma la sua posizione di “dominus” di fatto esercitata, e psicologicamente vissuta.

L’acquirente acquista, per quanto è a lui chiaro e visibile, dal proprietario od apparente proprietario. Trascorrono gli anni, il fondo viene rivenduto ad altro acquirente, che acquista sempre a titolo di piena proprietà. Si può affermare che l’originario rapporto enfiteusi – livello continua ad esistere? Se qualche dubbio può essere avanzato, questo vale solo nel caso in cui l’originario rapporto  si inquadra nel problema come uso civico e per terreni certamente civici per i quali esiste un solo modo per la estinzione e cioè il completamento del procedimento di liquidazione dell’uso civico, completamento che avviene con la  sclassificazione  e l’assegnazione in enfiteusi  o con la legittimazione,  e quindi il sopravvenire dell’affrancazione.

Tuttavia,  la Cassazione per i beni demaniali non facenti parte del Demanio Artificiale  ha affermato più volte la astratta ammissibilità della sdemanializzazione tacita o di fatto per beni del demanio, per i quali la cessazione della demanialità può essere solo conseguenza di un accadimento naturale o materiale, di cui la amministrazione pubblica si limita, con proprio atto, all’accertamento, che ha natura meramente dichiarativa e non costitutiva.

La cosa migliore sarebbe, allora, ovviamente, quella che l’interessato ottenga una sentenza che accerti il relativo acquisto così da avere una corretta intestazione catastale, anche se bisogna ammettere – specie alla luce della recente pronuncia della Corte di Cassazione (Cassaz., n. 2485 del 2007) – che il livellario possa vendere la piena proprietà del fondo senza che l’usucapione sia stata dichiarata giudizialmente; è pacifica, infatti, l’opinione secondo la quale l’acquisto per usucapione operi ipso iure, per effetto del solo possesso e del decorso del tempo, e la sentenza dalla quale risulta abbia, quindi, valore meramente dichiarativo. In tal caso sussisterebbe per il Notaio il problema di uno iato temporale nella continuità dell’intestazione catastale.

Si ricorda che l’usucapione non può darsi nel caso in cui concedente sia un ente pubblico: non sono, infatti, usucapibili i beni appartenenti al demanio dello stato, delle province, dei comuni (arg. ex artt. 823-824 e 1145 c.c.) o delle regioni (art. 11 L. n. 281 del 1970) (44); così come – d’altro canto – sono imprescrittibili i diritti demaniali su beni altrui (arg. ex artt. 823 e 825 c.c. e art. 11 L. n. 281, cit.).

In pratica, la corretta applicazione dell’art. 1164 del codice civile (chi ha il possesso corrispondente all’esercizio di un diritto reale su cosa altrui non può usucapire la proprietà della cosa stessa, se il titolo del suo possesso non è mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il diritto del proprietario. Il tempo necessario per l’usucapione decorre dalla data in cui il titolo del possesso è stato mutato) prevede che, chi volesse usucapire il diritto del concedente, dovrebbe innanzitutto fare opposizione contro il diritto del proprietario e solo dopo 20 anni potrebbe usucapire, dinanzi ad un giudice, la piena proprietà.

  1. Figure affini: gli usi civici

L’uso civico è un diritto di godimento collettivo che si concreta su beni immobili, in varie forme (caccia, pascolo, legnatico, semina), spettanti ai membri di una collettività, su terreni di proprietà comunale o anche di terzi, non scaturente da una legge formale ma radicato nella prassi collettiva.

Questa figura giuridica, nata in epoca alto medioevale, ha visto una sua organica regolazione ai primi del Novecento.

Discende da una tipologia di diritti tendenti a garantire la sopravvivenza o il benessere di una specifica popolazione, sfruttando in modo produttivo aree circoscritte.

L’uso civico nasce come diritto feudale, caratterizzato dall’utilizzo che una determinata collettività locale può fare di determinate aree e si inquadra, quindi nell’ottica tipica di un’economia di sussistenza: con l’uso civico di legnatico, ad esempio, i membri di una determinata comunità godevano del diritto di raccogliere legna in un particolare bosco, considerato (impropriamente, ma non sempre o non del tutto) come di proprietà collettiva.

Il Legislatore nel 1927 stabilì che tutti gli usi civici esistenti in quel momento avrebbero dovuto essere rivendicati e regolarizzati dando la possibilità ai soggetti di affrancarli e, quindi, di trasformare il possesso delle terre di demanio civico o la proprietà gravata da uso civico in piena proprietà assoluta ed esclusiva, istituendo un apposito magistrato detto Commissario agli usi civici, con lo scopo principale, ma non solo, di liquidare tali usi (qualora vertenti su terreni privati), nonché col potere di regolare amministrativamente gli usi non liquidati (interessanti terre comunali, frazionali o di altri enti, ovvero su superfici acquee).

Il corpus normativo di riferimento è costituito, principalmente, dalla Legge 16 giugno 1927 n. 1766 e dal relativo Regolamento di attuazione R.D. 26 febbraio 1928 n. 332; inoltre, dalle successive norme (nazionali e regionali) in materia di usi civici.

Il legislatore distinse gli usi civici in due principali categorie: terre di proprietà collettiva (demanio civico) e terre di proprietà privata su cui grava un diritto di uso civico in favore della collettività. I proprietari di terre con gravame di uso civico possono togliere tale vincolo, risarcendo la comunità in denaro (liquidazione) o in terra (scorporo).

Le terre di proprietà collettiva (demanio civico) convenientemente utilizzabili per l’agricoltura sono state spesso assegnate in quote enfiteutiche ai singoli membri della comunità titolare del diritto, in tal caso, il legislatore aveva previsto che questi, con particolari procedure, potessero alienare e riscattare (legittimare e/o affrancare) le quote, divenendone pienamente proprietari.

La Corte di Cassazione (Cassaz. 8 agosto 2003 n. 11993) ha statuito che i terreni gravati da uso civico rientrano nel patrimonio indisponibile del Comune in quanto destinati ad un pubblico servizio.

Gli usi civici, al pari dei livelli, costituiscono dei pesi gravanti sui fondi. Per questo, in presenza di livelli costituiti a favore di amministrazioni comunali occorre prestare massima attenzione in quanto, in luogo degli ordinari livelli, si potrebbero celare autentici usi civici, in presenza dei quali la legge prevede l’inalienabilità dei fondi, a pena di nullità dell’atto, con conseguente responsabilità del notaio rogante ex Art. 28 della Legge notarile.

Al riguardo, si segnala una recente sentenza del Tribunale di Avezzano del 30 aprile 2015, in tema di responsabilità notarile, ove viene espressamente statuito che:  “La diligenza professionale del notaio gli impone, in sede di stipula di un atto di disposizione di un diritto reale immobiliare, un accertamento che non può limitarsi ad un riscontro presso il Registro degli Usi Civici tenuto dai Commissari Regionali dell’esistenza di un uso civico sul bene interessato, ma deve estendersi – oltre allo studio delle evidenze catastali – all’indagine presso la competente P.A. delle procedure amministrative di verifica concluse o pendenti, delle quali dovrà notiziare le parti in epoca anteriore alla stipula del contratto”.

Si ricorda che qualora il rapporto enfiteutico derivi da un provvedimento di quotizzazione ai sensi degli artt. 13, 19 e 20 della Legge n. 1766 – anziché da un provvedimento di liquidazione (art. 7) o di legittimazione (artt. 9-10) – l’eventuale atto di disposizione del fondo è affetto da nullità ai sensi del successivo art. 21, comma 3: «Prima dell’affrancazione le unità suddette non potranno essere divise, alienate o cedute per qualsiasi titolo.».

In particolare, in tema di responsabilità professionale del Notaio in caso di trasferimento di terreni gravati da usi civici, occorre precisare quanto segue.

Nel caso di terreni di proprietà pubblica, la Legge 1766/1927 prevede delle eccezioni che comportano la commerciabilità dei beni in esame dopo l’assegnazione a categoria A) (boschi e pascoli) di cui all’Art. 11 della Legge 1766/1927: i terreni sono destinati per sempre a restare di proprietà pubblica, salva l’alienabilità per esigenze di pubblico interesse con l’autorizzazione da parte della Regione; dopo l’assegnazione a categoria B) (coltura agraria): i terreni sono assegnati in enfiteusi a singoli (c.d. quotizzazione) i quali potranno alienarli solo dopo l’affrancazione del canone enfiteutico; o in caso di c.d. legittimazione del possessore abusivo, a seguito del c.d. provvedimento di conciliazione.

I terreni di proprietà privata, gravati da usi civici, sono liberamente commerciabili, in quanto nessuna norma ne prevede l’inalienabilità: in tal caso, il notaio dovrà accertare se l’uso civico si è estinto (mediante la liquidazione per affrancazione). In caso accerti la non estinzione dello stesso, dovrà informare adeguatamente le parti e far emergere dall’atto l’esistenza dell’uso civico.

Ove il terreno risulti di proprietà pubblica, fino all’assegnazione a categoria, il notaio lo riterrà incommerciabile.

A seguito della conciliazione, convertendosi il bene demaniale in bene allodiale in favore del conciliato o legittimario, è possibile la sua commercializzazione.

  1. Presenza di livello nell’ambito di procedura di esproprio e di esecuzione forzata

6.1. Esproprio

In una recente pronuncia il Giudice amministrativo (T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 29 luglio 2010, n. 29121, in Riv. giur. edil., 2010, I, 2073) ha statuito che, nell’ambito dei soggetti legittimati ad impugnare gli atti di una procedura ablatoria, è compreso anche il livellario, in quanto il livello costituisce un diritto sul fondo, i cui contenuti sono assimilabili a quello di enfiteusi.

Il livellario è, dunque, titolare di una posizione differenziata e qualificata, relativamente all’area in suo possesso, e ha, quindi, interesse ad impugnare il provvedimento espropriativo (In particolare, si è riconosciuta la violazione del giusto procedimento con riferimento alla posizione del titolare del diritto di livello, il quale ha contestato di non avere ricevuto dal Comune notizia del procedimento espropriativo in corso di attuazione, attesa la sua posizione qualificata).

6.2. Esecuzione forzata

Allorché un immobile gravato da livello venga assoggettato ad esecuzione immobiliare, si pone al professionista delegato dal Giudice il problema di stabilire quale sia la natura giuridica del “livello” emergente dall’atto di provenienza o dai certificati ipotecari.

Occorre, a questo punto, affrontare in concreto il problema della corretta condotta da tenersi ad opera del professionista delegato alla vendita forzata.

Si restringe l’indagine alle seguenti due ipotesi problematiche: a) pignoramento del diritto di enfiteusi, in presenza di elementi processuali che facciano ritenere maturata l’usucapione della piena proprietà; b) pignoramento della piena proprietà, con certificazione notarile o altri dati dai quali si evinca che il diritto originariamente in capo all’esecutato o ai suoi danti causa fosse quello di enfiteusi (o utile dominio).

La prima ipotesi non pone particolari problemi, atteso che il diritto oggetto di pignoramento è l’enfiteusi e non potrà procedersi ad alcuna modificazione dello stesso, a meno che il creditore procedente non ritenga di procedere ad una rinnovazione del pignoramento; le circostanze di fatto emergenti dal fascicolo potranno costituire elementi rilevanti ai fini della determinazione della base d’asta, ma, nella prospettiva del Notaio delegato, non impongono né una istanza al G.E., né altre particolarità procedimentali.

Diversa è invece la seconda ipotesi, in cui il diritto indicato nel verbale di pignoramento è la piena proprietà, ma emerge da uno o più elementi processuali la chiara qualificazione come enfiteusi ovvero la verifica della originaria natura di enfiteusi a cui si aggiungono degli elementi che inducano a ritenere possibile che sia maturata l’usucapione.

Qualora il diritto esistente in capo all’esecutato sia pacificamente quello di enfiteusi, come emergente dalle certificazioni ipo-catastali e/o notarili ex art. 567 c.p.c. ed il pignoramento abbia riguardato la piena proprietà per un mero errore del procedente, non ancora rilevato dal difensore, il Notaio dovrà segnalare la questione al Giudice delle Esecuzioni, il quale opportunamente sentirà le parti. Verosimilmente il creditore procedente chiederà al Giudice delle Esecuzioni di emettere un provvedimento di limitazione dell’espropriazione restringendo in senso qualitativo (con riferimento al tipo di diritto da alienare forzosamente) l’oggetto della esecuzione forzata.

Nel caso in cui, invece, il diritto oggetto di espropriazione sia la piena proprietà, ma emergono da un lato elementi per ritenere che quello esistente in capo all’esecutato fosse originariamente un più limitato dominio enfiteutico, e dall’altro elementi che rendano ipotizzabile l’avvenuto verificarsi di una fattispecie di usucapione, vista la presenza di un interesse processuale e pubblico all’utile espletamento della procedura espropriativa, il Notaio dovrà preliminarmente valutare se, dalla documentazione a sua disposizione, tale ipotesi possa ritenersi fondata, eventualmente integrando, con la autorizzazione del Giudice, le ispezioni ipotecarie con riferimento alla posizione del concedente l’enfiteusi (o direttario) e suoi aventi causa.

In effetti quanto testè affermato non può rigorosamente limitarsi al settore della attività notarile quale professionista delegato; se, infatti, è vero che, nel corso della procedura espropriativa, l’interesse ad una veloce alienazione pervade l’attività dei vari soggetti interessati e quindi induce ad una diversa taratura degli strumenti professionali del notaio, è anche vero che ormai si può ritenere acquisita, se non addirittura pacifica, in giurisprudenza, la legittimità dell’operato del Notaio che roghi un pubblico atto di compravendita in cui l’alienante ponga a fondamento del proprio acquisto una fattispecie-usucapione che non sia stata accertata giudizialmente.

L’insegnamento attuale della Suprema Corte è nel senso che, ragionando diversamente “si verificherebbe la strana situazione per cui chi ha usucapito sarebbe proprietario, ma non potrebbe disporre validamente del bene fino a quando il suo acquisto non fosse accertato giudizialmente”.

Dunque, in presenza di una esecuzione forzata nei confronti di un diritto di enfiteusi – che si atteggia a proprietà oggetto di usucapione non accertata – la corretta condotta del Notaio deve essere volta ad una adeguata valutazione (non processuale, ma certamente pre-processuale e anti-processuale, come è tipico del Notaio) degli elementi che possano indurre a ritenere maturata l’usucapione ed a una successiva completa informazione delle parti e del Giudice; ed è proprio al Giudice dell’Esecuzione che il Notaio deve chiedere precise istruzioni.

Il decreto di trasferimento predisposto dal Notaio, allorché si decida di alienare la piena proprietà, in presenza di livello – e quindi di possibile sussistenza del diritto del concedente in capo ad un terzo – dovrà segnalare insieme alle formalità pregiudizievoli tale peso, sottolineando che lo stesso non potrà essere cancellato in forza del decreto, mentre nel caso in cui si decida di alienare il solo diritto di enfiteusi, l’informazione circa un eventuale possesso ventennale uti dominus non dovrà essere inserita, non essendo stata oggetto di alcun accertamento giudiziale in tal senso, dovendo al più essere segnalata nell’avviso di vendita ai fini della valutazione delle parti in tema determinazione del valore del bene.

Nella maggior parte dei casi pratici non dovrebbero verificarsi particolari difficoltà connesse agli adempimenti pubblicitari del decreto di trasferimento, atteso che, sia nella ipotesi in cui si decida di procedere alla vendita forzata del diritto di enfiteusi che in quella in cui si alieni forzatamente la piena proprietà, la nota di trascrizione non potrà che riprodurre il diritto riportato nel decreto stesso; chiaramente allorché si alieni la piena proprietà e questa sia in realtà derivante da usucapione (non accertata) a favore del titolare del dominio utile, vi sarà una evidente discontinuità delle trascrizioni, anche se riferita ad un periodo anteriore al ventennio.

Quanto invece alla voltura catastale, il problema si presenta maggiormente articolato; invero si possono verificare quattro ipotesi: a) il livello non emerge dagli atti catastali e si procede alla vendita forzata del diritto di piena proprietà; b) il livello emerge dagli atti catastali e si procede alla vendita forzata del diritto di enfiteusi; c) il livello emerge dagli atti catastali e si procede alla vendita forzata del diritto di proprietà; d) il livello non emerge dagli atti catastali e pur tuttavia si procede alla vendita forzata del diritto di enfiteusi perchè questo è il diritto emergente dai titoli trascritti.

Nei primi due casi ovviamente non vi sarà problematica alcuna, attesa la corrispondenza tra il diritto emergente dal catasto e quello oggetto di voltura; negli ulteriori due casi, invece, il diritto oggetto di voltura non è quello che in catasto emerge come di titolarità dell’esecutato.

Ai sensi dell’art. 4 del D.M. n. 701/1994, è consentito ai proprietari o ai titolari di altro diritto reale di aggiornare la posizione catastale, relativa ai soggetti o ai beni, mediante presentazione di domanda di voltura corredata da relazione notarile, alla quale, ove la discordanza interessi i beni, è annessa apposita relazione tecnica, redatta da professionista abilitato alla presentazione di documenti tecnici e catastali.

La relazione notarile contiene gli estremi dei titoli pregressi, delle relative trascrizioni che hanno dato luogo a trasferimenti, costituzioni o estinzioni di diritti reali, e delle correlative domande di voltura, nonché altri elementi comunque giustificativi della legittimità delle variazioni catastali richieste.

La norma in parola consente senza dubbio di risolvere agevolmente, con una istanza all’Agenzia del Territorio, l’ipotesi supra descritta sub “d”, atteso che si tratta di correggere una intestazione evidentemente errata.

L’ipotesi più problematica ed anche quella di maggiore interesse ai fini del presente studio, è quella sub “c”, allorché dall’esame ipotecario emerga che il soggetto esecutato, anteriormente al ventennio, aveva acquistato la proprietà gravata da livello, ma, in base agli altri elementi, si giunga alla conclusione che possa essere alienato coattivamente il diritto di piena proprietà; apparentemente la norma supra citata potrebbe risolvere il problema, ma, in realtà, non si comprende come il Notaio possa redigere una relazione nella quale attesta che l’esecutato è titolare della piena proprietà; e, non avendo le valutazioni del Giudice delle Esecuzioni alcuna efficacia di accertamento, non vi è il titolo idoneo per ottenere una voltura ordinaria senza riserva.

La voltura “con riserva” di cui all’art. 8, comma II, del D.P.R. n. 650/1972 avviene allorché, ai sensi del precedente art. 4, comma VII, dello stesso D.P.R. “non vi è concordanza fra la ditta iscritta in catasto e quella dalla quale si fa luogo al trasferimento stesso”; in questo caso “quando i passaggi intermedi non sono stati convalidati da atti legali” occorre “una dichiarazione della parte cedente, autenticata da chi provvede alla rogazione od emanazione od autenticazione”; ne deriva che, a ragionare in senso formale, nel caso in esame anche la voltura con riserva potrebbe essere rifiutata dall’Ufficio periferico del Territorio, mancando la dichiarazione della parte cedente, ed invero si registra una prassi catastale – da ritenersi commendevole – volta ad attribuire sempre maggiore difficoltà pratica nel procedere a tale tipo di voltura.

  1. Conclusioni

In sintesi e a chiusura del presente scritto, può affermarsi, con riguardo ai fondi gravati da livelli, quanto segue:

a) se concedente è un’amministrazione statale o si tratta di livelli veneti è possibile chiedere che l’indicazione catastale dei rapporti in esame sia cancellata, a seconda dei casi, ai sensi dell’art. 1 L. n. 3 del 1974, dell’art. 1 L. n. 16 del 1974 (ora abrogato) o dell’art. 60 L. n. 222 del 1985. È però – si badi – necessario a tal fine che ricorrano tutte le specifiche condizioni previste (molte delle quali sono peraltro di difficile, se non impossibile, accertamento);

b) se concedente è un comune è consigliabile la massima cautela. Concretamente è opportuno che il notaio richiesto della stipulazione dell’atto di trasferimento pretenda sempre la preventiva affrancazione del canone (a meno che sia certo che il canone non è dovuto in forza di un provvedimento di quotizzazione di terre gravate da usi civici);

c) se concedente è un ente ecclesiastico o, comunque, un soggetto diverso da quelli di cui alla lettera b), la soluzione preferibile è sempre quella dell’affrancazione, salvo – dopo aver adeguatamente informato le parti e su richiesta delle parti stesse – o lasciare le cose come stanno (vendendo la piena proprietà e solo facendo menzione del vincolo tra le formalità pregiudizievoli) oppure, ricorrendone i presupposti, vendere il bene come usucapito.

Da ultimo, occorre osservare che l’esigenza di affrancare i fondi gravati da livelli è sempre più forte dopo la Legge 52/1985 (sulla conformità catastale), soprattutto con riguardo alle c.d. enfiteusi urbane, stante la dichiarazione (di conformità) da rendere negli atti di trasferimento a pena di nullità dagli intestatari catastali degli immobili.

 

BIBLIOGRAFIA

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“PRELAZIONE ARTISTICA ED AFFRANCAZIONE LIVELLO” Quesito N. 113-2007/C, di Lomonaco, in CNN Notizie 2 luglio 2007

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“I VINCOLI SULLA PROPRIETA’ TERRIERA FRA TRADIZIONE ED EFFETTIVITA’: IL PROBLEMA DI ENFITEUSI, CENSI E LIVELLI”, Convegno Studi Ragusa 5 dicembre 2009

Dott. Michele Duchi, Presidente del Tribunale di Ragusa

Not. Michele Ottaviano, Presidente del Consiglio Notarile dei Distretti Riuniti di Ragusa e Modica, Vice Presidente del Centro Studi “Federico II”

Introduce e Coordina i Lavori:

Not. Filippo Ferrara, Presidente del Consiglio Notarile di Caltagirone – Centro Studi “Federico II”

“IL LIVELLO: UN DIRITTO REALE DI GODIMENTO ASSIMILABILE ALL’ENFITEUSI” di Giuseppe Musolino, in

Rivista del Notariato, fasc. 3, 2013, pag. 702

GIURISPRUDENZA:

Cassaz. 12-06-1961 n. 1366

Cassaz. 22-06-1963 n. 1682

Cassaz. Civ. 08-01-1997 n. 64

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Cassaz. civ. Sez. VI – 2 Ordinanza, 06-06-2012, n. 9135

T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 29-07-2010 n. 29121

Tribunale di Reggio Calabria 09-11-2011

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Livelli: brevi note ultima modifica: 2017-04-13T07:45:57+02:00 da Daniela Riva
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