L’atto pubblico quale titolo esecutivo per il rilascio ed il suo impiego nelle locazioni immobiliari

L’atto pubblico ricevuto dal notaio è titolo esecutivo non solo per la riscossione forzata delle somme dovute in virtù del medesimo, ma anche per l’esecuzione forzata degli obblighi di consegna di beni mobili e di rilascio di beni immobili.

Pertanto, ove la locazione sia conclusa nella forma dell’atto pubblico ed occorra procedere allo sfratto di un conduttore moroso o licenziato, il proprietario potrà avviare direttamente l’esecuzione forzata richiedendo all’Ufficiale Giudiziario la notifica del precetto e dell’avviso di rilascio.

Le riflessioni che seguono vertono sulla possibilità di estendere l’attività notarile ad un campo ancora poco battuto: quello delle locazioni.

Senza alcuna pretesa di esaustività[1], verranno evidenziati i vantaggi conseguenti alla stipula del contratto di locazione nella forma dell’atto pubblico rispetto a quella della scrittura privata la quale, ove autenticata, costituisce titolo esecutivo solo per la riscossione coattiva delle somme dovute in virtù della medesima.

Esaminati brevemente i termini processuali e le principali variabili connesse al giudizio di sfratto, si darà quindi conto della valenza dell’atto pubblico quale titolo esecutivo per il rilascio.

Verrà quindi tratteggiata la fase esecutiva, per poi individuare il contenuto minimo dell’atto.

Da ultimo, si passeranno in rassegna alcune ipotesi applicative.

Sommario: I) La particolare realtà delle locazioni; II) L’iter giudiziario per ottenere il provvedimento di sfratto; II.1) I tempi per la notifica; II.2) L’udienza di convalida e le tutele del conduttore; II.3) L’eventuale passaggio dal rito sommario al rito speciale; II.4) Il provvedimento di rilascio; III) Il titolo esecutivo quale unica condizione dell’azione esecutiva; IV) L’atto pubblico quale titolo esecutivo per il rilascio; V) L’esecuzione forzata dell’obbligo di rilascio e le opposizioni dell’esecutato; V.1) Il contenuto dell’atto pubblico; VI) Ipotesi applicative; VII) Considerazioni finali.

di Tullio Alberto Lops, notaio in Pistoia

I) La realtà delle locazioni.

La locazione è il contratto col quale una parte, detta locatore o concedente, si obbliga a far godere all’altra, detta locatario o conduttore, una cosa mobile o immobile per un dato tempo, verso un determinato canone.

Mentre gli artt. 1350 n. 8 c.c. e 1, comma 4, l. 431/1998, concernenti rispettivamente la locazione ultranovennale e e la locazione abitativa (anche infranovvennale) prevedono la forma scritta ad substantiam actus, simile previsione non ricorre nella l. 392/1978 relativa alla disciplina delle altre locazioni urbane.

Nondimeno, tutte le locazioni vengono concluse per iscritto, mediante scrittura privata non autenticata, non solo per la necessità della loro registrazione, ma anche al fine di documentare l’accordo raggiunto (esigenza, quest’ultima, sempre più avvertita in funzione della tutela giurisdizionale).

La scelta della scrittura privata non autenticata quale strumento più agile, se da un lato consente un più o meno consistente risparmio dei costi[2], dall’altro non fornisce adeguata tutela al proprietario che concede in locazione il proprio immobile.

La scrittura privata non autenticata, infatti:

  • non è titolo esecutivo per la riscossione forzata delle somme dovute in virtù della medesima;
  • solo ove non disconosciuta nella firma dal soggetto contro il quale la si fa valere, può essere assunta a fondamento di provvedimenti giudiziari (es. decreto ingiuntivo, sentenza, ordinanza-ingiunzione ex 186- ter c.p.c.).

Nella quasi totalità dei casi, a fronte della perdita della materiale disponibilità del bene, il concedente non ha alcuna certezza in ordine al regolare pagamento dei canoni di locazione dovuti.

Le eventuali garanzie personali, infatti, necessitano di essere “attivate” giudizialmente, lasciando il concedente privo di rapida (ed idonea) tutela.

Né sono frequenti le garanzie reali che – sia per i relativi costi, sia per la naturale indisponibilità di altri immobili da parte degli aspiranti conduttori – restano, nella quasi totalità dei casi, fuori dalla contrattazione.

Osservando lo svolgimento del rapporto locatizio, è poi facile constatare che, fino alla consegna delle chiavi il concedente è senz’altro contraente c.d. forte che, da un lato, ha già riscosso l’eventuale caparra e, dall’altro, ha ancora la materiale disponibilità del bene.

 Egli, tuttavia, per effetto della consegna della res locata, si ritrova repentinamente nelle vesti di contraente c.d. debole, restando soggetto alle vicende del conduttore, che ancora deve corrispondere i futuri canoni di locazione.

Vero è, poi, che il conduttore infedele, complici anche i tempi della Giustizia (ed un forse eccessivo garantismo), ha gioco facile nel sottrarsi al pagamento dei canoni, mantenendo la disponibilità del bene.

Correlativamente, il concedente, conserva e continua a maturare il diritto ai singoli canoni, ma sempre più spesso è disposto (o costretto dall’incapienza del debitore) a rinunciare ai canoni di locazione insoluti, pur di recuperare la res.

Tale proposito del concedente è spesso rafforzato da ulteriori considerazioni economico-fiscali poiché, laddove il canone non sia regolarmente corrisposto, la proprietà dell’immobile finirà per rappresentare esclusivamente una fonte di costi.

Il canone, sebbene non percepito, costituisce comunque reddito imponibile ai fini IRPEF/IRES, con l’ulteriore considerazione che sull’immobile locato è altresì dovuta l’IMU.

A tanto occorre aggiungere i costi per l’eventuale recupero dei canoni insoluti e quelli relativi all’inevitabile attività giudiziaria tesa al rilascio coattivo dell’immobile, sulla quale ultima subito si dirà.

II) L’iter giudiziario per ottenere il provvedimento di sfratto.

In mancanza di spontaneo rilascio, al concedente che intenda recuperare il bene non resta che percorrere le vie giudiziarie.

Formalizzata la costituzione in mora e la diffida ad adempiere in un termine non inferiore ai quindici giorni (così l’art. 1454 c.c.), il concedente dovrà iniziare il procedimento sommario per convalida di sfratto (per finita locazione o per morosità) di cui agli artt. 657 e ss. c.p.c., instaurando il contraddittorio nelle forme di legge.

A tal fine, il locatore dovrà intimare al conduttore lo sfratto, contestualmente citandolo per la convalida, con la precisazione che, ai sensi dell’art. 660, comma 4, c.p.c., tra il giorno della notificazione dell’intimazione e quello dell’udienza indicata per la convalida, devono intercorre termini liberi non minori di venti giorni.

II.1) I tempi per la notifica.

La realtà degli Uffici Giudiziari ed il concreto svolgimento dell’attività di notificazione degli atti giudiziari da parte degli Ufficiali e dei messi notificatori comporta un impiego di tempo spesso maggiore di venti giorni, un tempo – cioè – maggiore del termine dilatorio a difesa previsto dall’art. 660, comma 4, c.p.c.

Sorvolando sulle questioni processuali, in questa sede si intende solo evidenziare l’estrema variabilità dei tempi necessari al perfezionamento della notifica[3], in dipendenza non solo delle realtà dei singoli Uffici Giudiziari territoriali, ma anche della “tipologia” di ciascuna notifica:

  • una notifica “in mani proprie” (art. 138 c.p.c.) si perfeziona senz’altro con la consegna al destinatario, in media entro dieci-quindici giorni;
  • una notifica “nella residenza, nella dimora o nel domicilio” (cioè ad un familiare o al portiere – art. 139 c.p.c.) si perfeziona con il ricevimento da parte del destinatario (o con la compiuta giacenza) della raccomandata con cui l’Ufficiale Giudiziario dà notizia dell’avvenuta notificazione dell’atto, e può impiegare fino a venti-venticinque giorni;
  • una notifica in caso di irreperibilità del destinatario (cioè nel caso in cui l’Ufficiale non trovi nessuno sul luogo indicato per la notifica) o di rifiuto del destinatario di ricevere la copia dell’atto notificato (art. 140 c.p.c.), si perfeziona anch’essa con il ricevimento da parte del destinatario (o con la compiuta giacenza) della raccomandata con cui l’Ufficiale Giudiziario dà notizia dell’avvenuta notificazione dell’atto, e può impiegare fino a venti-venticinque giorni.

Considerato che il termine di venti giorni di cui all’art. 660, comma 4, c.p.c. deve essere computato dall’avvenuto perfezionamento della notifica, al fine di evitare l’eccezione di mancato rispetto del termine a difesa e/o il conseguente ordine del Giudice di rinnovare la notificazione al convenuto (con l’inevitabile ripetizione dei tempi indicati), è buona prassi quella di citare il conduttore fissando l’udienza di comparizione ad almeno 45-50 giorni, così da consentire il perfezionamento della notificazione.

Solo all’esito del rituale svolgimento di detto procedimento, il contraddittorio potrà dirsi instaurato, consentendo al Giudice di ius dicere inter cives, pur in contumacia di una delle parti.

II.2) L’udienza di convalida e le tutele del conduttore.

All’udienza di convalida:

  • se l’intimato non compare o, comparendo, non si oppone, il Giudice convalida lo sfratto con ordinanza e dispone l’apposizione della formula esecutiva sulla stessa;
  • se l’intimato compare formulando eccezioni e, come accade di frequente, spiegando (anche con finalità meramente dilatoria o intimidatoria) domande riconvenzionali per asseriti miglioramenti apportati alla res locata, il Giudice provvede ai sensi dell’art. 667 c.p.c., disponendo la prosecuzione del giudizio nelle forme del rito speciale.

Inoltre, nei soli casi di locazione abitativa trova applicazione la disciplina “di favore” sul c.d. termine di grazia di cui all’art. 55 l. 392 del 27 luglio 1978 (c.d. Legge sull’equo canone), a tutela del conduttore.

Quest’ultimo può innanzi tutto sanare la morosità mediante pagamento banco iudicis dei canoni arretrati, delle spese legali e degli accessori di legge e può avvalersi di tale facoltà per ben tre volte nel corso di un quadriennio.

Inoltre, ai sensi del comma 2 del medesimo art. 55, ove il pagamento delle predette somme non avvenga in udienza, il Giudice dinanzi a “comprovate condizioni di difficoltà[4]” del conduttore può assegnare un termine (c.d. di grazia) non superiore a novanta giorni per eseguire il pagamento del quantum debeatur, rinviando l’udienza a non oltre dieci giorni dalla scadenza del termine assegnato.

Ancora, il termine di grazia di novanta giorni, può essere prolungato fino ad un massimo di centoventi giorni (!) se l’inadempienza, protrattasi per non oltre due mesi, è conseguente alle precarie condizioni economiche del conduttore, insorte dopo la stipulazione del contratto e dipendenti da disoccupazione, malattie o gravi condizioni di difficoltà[5].

Infine, e sempre riguardo alle locazioni abitative, significativo è l’ultimo comma dell’art. 55, che esclude la risoluzione del contratto ove il pagamento avvenga nei termini stabiliti dal Giudice.

In conclusione sul punto, nel giudizio sommario per convalida di sfratto sono riconosciute al conduttore dell’immobile abitativo molteplici facoltà e diritti, spesso oggetto di veri e propri abusi con finalità meramente dilatorie e che, pur in presenza di gravi inadempienze, lasciano sussistere un rapporto il cui sinallagma è gravemente pregiudicato.

Ciò posto, il conduttore, oltre a richiedere la concessione del termine di grazia (nelle locazioni abitative), può in ogni caso formulare eccezioni fondate su prova scritta ovvero spiegare domande riconvenzionali.

In tal caso l’art. 667 c.p.c. dispone la prosecuzione del giudizio, in origine sommario, nelle forme del rito speciale delle locazioni (art. 426 c.p.c.), previa integrazione degli atti introduttivi, con apposite memorie da depositare nel termine fissato dal Giudice.

In conseguenza di eccezioni fondate su prova scritta o di domande riconvenzionali, dunque, il procedimento sommario, già di per sé soggetto ai tempi ordinari della Giustizia, viene rallentato dall’istruttoria tesa alla plena cognitio sui fatti di causa che (pur con le peculiarità del rito speciale), il Giudice dovrà raggiungere per decidere in ordine ai fatti ed alle domande a lui devoluti.

II.4) Il provvedimento di rilascio.

Sorvolando sulle incertezze e sulle variabili naturalmente connesse alla cognizione piena (e salvo sempre il successivo esperimento dei mezzi di impugnazione), il Giudice, tenuto conto delle condizioni del conduttore comparate a quelle del concedente (in tal senso l’art. 56, comma 1, l. 392/1978), disporrà il rilascio del bene locato fissando la data dell’esecuzione entro il termine massimo di sei mesi (ovvero, in casi eccezionali, nel termine massimo di dodici mesi) dalla data del provvedimento.

Ma non finisce qui!

Prima della data fissata per il rilascio, tanto il concedente quanto il conduttore possono, con apposita istanza, chiedere al Tribunale di fissare una nuova data per l’esecuzione, a non oltre sei mesi.

In mancanza di spontaneo rilascio nel termine fissato, il proprietario, ottenuta (nei tempi di Cancelleria) la copia esecutiva del provvedimento di rilascio. potrà dare inizio all’esecuzione forzata.

Dunque, solo all’esito del faticoso iter giudiziario “tipo” fin qui sinteticamente esposto, si ha finalmente la conclusione del primo grado di giudizio e la formazione del titolo esecutivo per ottenere il rilascio dell’immobile.

A questo punto, occorre rivolgere un accorato e solidale pensiero al proprietario dell’immobile locato, confidando che l’Odissea fin qui tratteggiata ben possa essere evitata mediante la stipula di un atto pubblico nei termini appresso indicati.

III) Il titolo esecutivo quale unica condizione dell’azione esecutiva.

Fin qui l’attività di cognizione mediante la quale il Giudice perviene all’accertamento del diritto al rilascio.

Su tale accertamento si fonda l’esecuzione forzata.

Detto altrimenti, l’accertamento, che è il punto di arrivo dell’attività di cognizione, è il punto di partenza dell’azione esecutiva.

Quest’ultima, come noto:

  • tende all’esecuzione materiale del diritto sostanziale;
  • presuppone il già avvenuto accertamento di tale diritto;
  • avviene ad opera di un Organo preposto ad eseguire (l’Ufficio Notifiche Esecuzioni e Protesti – UNEP, che opera tramite gli Ufficiali Giudiziari) e, perciò, non idoneo a giudicare o ad accertare.

L’azione esecutiva, dunque, presuppone che l’accertamento dell’esistenza del diritto sia consacrato in un documento che lo raffiguri come in una rappresentazione fotografica, cosicché l’Ufficiale procedente possa operare munito di quella rappresentazione.

Il titolo esecutivo, insomma, è quel documento che contiene l’accertamento del diritto sostanziale come esistente e come suscettibile di esecuzione forzata e, in quanto tale, costituisce la condizione necessaria e sufficiente per procedere: necessaria perché non è concepibile esecuzione forzata senza titolo esecutivo (nulla executio sine titulo), sufficiente perché l’UNEP è dispensato da ogni altro compito diverso da quello dell’eseguire il titolo stesso[6].

Il titolo esecutivo ha l’attitudine ad “isolare” il diritto in esso accertato: ha cioè efficacia incondizionata. Sicché, per fermare l’esecuzione forzata, occorre contestare il diritto accertato, cioè contestare il titolo, instaurando un apposito giudizio di cognizione (l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c.) che si inserisce, come una parentesi, nell’esecuzione.

Ora, l’art. 2930 c.c. enuncia – tra l’altro – la generica eseguibilità in forma specifica dell’obbligo di rilasciare un bene immobile, secondo le norme del codice di procedura civile.

Tra queste ultime, assume rilievo centrale l’art. 474, comma 3, c.p.c., come introdotto con l. 80/2005, ai sensi del quale “L’esecuzione forzata per consegna o rilascio non può aver luogo che in virtù dei titoli esecutivi di cui ai numeri 1 e 3 del secondo comma” e cioè “le sentenze, i provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva”, ovvero in forza di “atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli”.

IV) L’atto pubblico quale titolo esecutivo per il rilascio.

Muovendo dalle considerazioni che precedono, e rinviando al successivo punto V.1 in ordine al contenuto dell’atto, l’avente diritto al rilascio, munito del solo titolo esecutivo, può dare avvio all’esecuzione forzata.

Il che, con specifico riferimento alla crisi del rapporto locativo, significa che laddove la locazione sia stipulata per atto pubblico, sarà possibile saltare “a piè pari” tutto il giudizio di cognizione volto alla formazione del titolo esecutivo[7].

Vengono ora esaminati i principali punti della fase esecutiva.

V) L’esecuzione forzata dell’obbligo di rilascio e le opposizioni dell’esecutato.

Ai sensi dell’art. 479 c.p.c., l’esecuzione forzata deve essere preceduta dalla notificazione del titolo in forma esecutiva[8] e del precetto, consistente nell’intimazione di adempiere l’obbligo risultante dal titolo esecutivo entro un termine non minore di dieci giorni, con l’avvertimento che in mancanza si procederà ad esecuzione forzata.

L’esecuzione, da avviare entro novanta giorni dalla notificazione del precetto a pena di inefficacia dello stesso, ha inizio con la notifica dell’avviso di rilascio con il quale l’Ufficiale Giudiziario comunica alla parte, tenuta a rilasciare l’immobile, il giorno e l’ora in cui procederà.

Nel giorno e nell’ora stabiliti, l’Ufficiale Giudiziario si reca sul luogo dell’esecuzione (presso l’immobile da rilasciare, cioè) e, anche avvalendosi della Forza Pubblica, immette l’avente diritto nel possesso dell’immobile, del quale consegna le chiavi, ingiungendo agli eventuali detentori di riconoscere il nuovo possessore (cfr. art. 608, comma 2, c.p.c.).

Sorvolando sulle (tutt’altro che infrequenti) ipotesi di cui all’ art. 609 c.p.c. relativo ai “Provvedimenti circa i mobili estranei all’esecuzione”, che – per quanto qui interessa – si traducono in un ulteriore allungamento in indefinitum dei tempi necessari al recupero dell’immobile, vale la pena di soffermarsi brevemente sulle tutele che in tale fase competono all’esecutato.

Tanto nel caso in cui l’esecuzione inizi in virtù di titolo giudiziale, quanto nel caso in cui la stessa avvenga in virtù di atto pubblico, l’esecutato può:

  • opporsi all’esecuzione (ex 615 e ss. c.p.c.) contestando il diritto della parte istante e determinando l’apertura di una parentesi di cognizione tesa ad accertare se il diritto rappresentato dal titolo sia ancora attuale ed attuabile (v. al riguardo infra al punto V.1) o se si siano verificati fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto in executivis[9];
  • opporsi agli atti esecutivi (ex 617 e ss. c.p.c.) contestando la regolarità formale del titolo esecutivo, del precetto, la loro notificazione o i singoli atti del procedimento esecutivo.

L’esperimento delle suddette tutele ha spesso funzione meramente dilatoria, tanto più odiosa ove l’esecuzione segua in base ad un titolo giudiziale faticosamente conquistato; nondimeno, è possibile che l’esecutato, vieppiù ove l’esecuzione avvenga in virtù di atto pubblico spieghi non solo opposizione agli atti esecutivi, ma anche (e soprattutto) opposizione all’esecuzione.

In tal caso, si assiste all’inevitabile concentrazione della tutela del locatario nell’opposizione all’esecuzione.

Detto altrimenti, il conduttore esecutato per il rilascio della res locata, non essendo stato previamente chiamato in giudizio, non ha potuto spiegare le difese passate in rassegna ai precedenti punti II.2-II.4 e, dunque, tenterà di reintrodurre, nella forma dell’opposizione all’esecuzione, quelle eccezioni e quelle domande riconvenzionali ontologicamente appartenenti alla fase contenziosa.

È dunque fisiologico che la tutela dell’esecutato si concentri nell’opposizione ex art. 615 c.p.c., cioè in quella particolare azione volta a contestare il diritto del creditore a procedere all’esecuzione forzata, essendo cristallizzato nell’atto notarile il diritto al rilascio.

Di ciò appare consapevole lo stesso Legislatore che, infatti, all’art. 615, comma 1, secondo periodo, c.p.c. prevede che “Il giudice, concorrendo gravi motivi, sospende su istanza di parte l’efficacia esecutiva del titolo” (i.e. l’esecuzione, n.d.a.), disponendo la successiva introduzione del giudizio di opposizione per la verifica del diritto del procedente.

V.1) Il contenuto dell’atto pubblico.

Ai fini dell’eseguibilità forzata, non è sufficiente che l’obbligo di rilascio discenda da una norma di legge, ancorché pienamente applicabile in via d’integrazione ex art. 1374 c.c., al regolamento contrattuale; è invece necessario che detto obbligo sia espressamente e chiaramente previsto nel titolo esecutivo, rappresentando esattamente il diritto del creditore al rilascio.

Come è stato efficacemente detto[10], “non è sufficiente che il contratto (…) ponga la premessa logica e giuridica dell’obbligo di consegna/rilascio, ma è necessario che tale premessa sia sviluppata e portata alle sue conseguenze nel titolo stesso, con l’esplicita previsione dell’obbligo di rilascio”.

Esplicitando l’obbligo di rilascio nell’atto pubblico, si fornirà la rappresentazione fotografica del fatto costituivo della pretesa del creditore.

Quest’ultimo, agendo per l’esecuzione forzata, non farà altro che affermare il fatto costitutivo del proprio diritto.

Spetterà, per contro, all’esecutato eccepire e dimostrare la sussistenza di fatti impeditivi, modificativi od estintivi dell’avversa pretesa.

In ottica prettamente antiprocessualistica e di riequilibrio delle posizioni contrattuali, è necessario, nella redazione dell’atto, escludere (o almeno circoscrivere) la sopravvenienza di fatti modificativi, estintivi od impeditivi e la conseguente possibilità che l’esecutato formuli le relative eccezioni.

Tralasciando fattispecie non conferenti[11], l’attenzione viene rivolta esclusivamente ai fatti impeditivi.

Sotto tale nomen iuris si annidano le ipotesi in cui il detentore della res opponga al concedente un idoneo titolo giustificativo della propria detenzione.

La sussistenza e la persistenza del contratto di locazione al tempo dell’esecuzione è un fatto impeditivo che rende inesigibile il rilascio.

Occorre, dunque, che l’atto pubblico preveda un elemento idoneo a far venir meno, a risolvere – cioè – il contratto prima dell’inizio dell’esecuzione.

Tale elemento, oltre al termine finale d’efficacia, naturalmente è la clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c.

Per effetto della risoluzione del contratto, viene meno il titulus detinendi/possidendi, cioè viene meno il fatto impeditivo del rilascio.

 Conseguentemente, il debitore obbligato al rilascio non potrà fondatamente eccepire la sussistenza di un fatto impeditivo non più attuale.

Né rileva l’obiezione secondo cui la dichiarazione del creditore di volersi avvalere della clausola risolutiva non avrebbe adeguata rappresentazione nel titolo esecutivo azionato.

Vero è, infatti, che:

  • l’atto pubblico costituisce la rappresentazione fotografica del fatto costitutivo di quella determinata pretesa che il creditore intende soddisfare esecutivamente;
  • la dichiarazione di volersi avvalere della clausola risolutiva ex 1456, comma 2, c.c., nulla aggiunge al titolo esecutivo, avendo la sola funzione di eliminare dal mondo giuridico un fatto impeditivo e la conseguente opponibilità dello stesso da parte dell’esecutato.

Non sarà dunque necessario che la dichiarazione di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa abbia la forma dell’atto pubblico.

 In conclusione, l’esecuzione in forma specifica avverrà in virtù dell’atto pubblico che, in quanto condizione necessaria e sufficiente per iniziare l’esecuzione forzata (v. supra III), già ex se legittima il creditore procedente e l’Ufficiale Giudiziario a svolgere l’attività esecutiva.

La risoluzione del contratto ex art. 1456 c.c., invece, determinerà soltanto il venire meno del titulus possidendi/detinendi, cioè di quel fatto impeditivo dell’avversa pretesa che l’esecutato avrebbe potuto opporre al creditore procedente.

La previsione della clausola risolutiva espressa e la dichiarazione del contraente di volersene avvalere determina la risoluzione del contratto e, quindi, rende il contratto stesso un fatto non più impeditivo dell’esecuzione.

***

All’esito delle considerazioni che precedono, la clausola da inserire in atto potrebbe avere il seguente tenore letterale:

 

Art. . . . – Clausola risolutiva espressa. Obbligo di rilascio.

Le parti convengono che, in caso di mancato pagamento di almeno due canoni alle scadenze previste, il presente contratto si risolva se la parte interessata, con raccomandata A/R all’indirizzo indicato in comparizione, dichiari all’altra che intende avvalersi della presente clausola.

 Ove il presente contratto si risolva a norma del precedente comma ovvero per altre cause previste dalla legge, il conduttore TIZIO rilascerà senz’altro l’immobile locato entro . . . giorni dalla risoluzione.

 

Art. . . .-bis – Titolo esecutivo.

Le parti riconoscono che il presente atto pubblico costituisce titolo esecutivo, oltre che per le somme di denaro in base allo stesso dovute, anche per l’obbligo di rilascio di cui al precedente articolo.

VI) Ipotesi applicative

Nel descritto panorama, il ricorso dell’atto pubblico può e dovrebbe essere incentivato per contenere i tempi di rilascio dell’immobile, ampliando la qualità e la quantità dell’attività notarile nei confronti della cittadinanza.

L’atto pubblico quale titolo esecutivo per il rilascio di beni immobili può trovare applicazione nelle locazioni abitative di cui alla l. 431/1998 ed in quelle commerciali di cui all’art. 392/1978, inserendosi in un contesto caratterizzato da forte litigiosità e perciò certamente difficile (anche in ragione dei noti tempi della Giustizia), con l’attitudine a risolvere o quanto meno di arginare le problematiche sopra passate in rassegna.

Peraltro, nei casi in cui ciò sia possibile, le problematiche esposte possono essere arginate ex post, con la stipula di un negozio integrativo o con una risoluzione consensuale della locazione, che espliciti l’obbligo del conduttore di rilasciare la res o, ancora, con la dichiarazione di recesso in cui il dichiarante si obblighi unilateralmente al rilascio.

Ancora, muovendo dal ricordato art. 474, comma 3 c.p.c. e dall’art. 2930 c.c. relativo alla generica eseguibilità in forma specifica dell’obbligo di rilasciare un bene immobile, la forma dell’atto pubblico dovrebbe essere preferita alla scrittura privata autenticata, per la vendita con riserva della proprietà, così rafforzando la tutela del venditore che, in caso di inadempimento rilevante ex art. 1525 c.c., intenda recuperare la materiale disponibilità dell’immobile.

In tali ultime ipotesi, peraltro, l’utilità dell’atto pubblico notarile quale titolo esecutivo per il rilascio e/o per la consegna di cose determinate è sottolineata dal fatto che il procedimento volto alla formazione del titolo esecutivo dovrebbe seguire sin dal suo inizio non già le forme del rito sommario di cui agli artt. 7 e ss. c.p.c. (riservato alle locazioni ed agli affitti a coltivatori diretti, mezzadri e coloni), bensì direttamente le forme del rito speciale di cui all’art. 447-bis c.p.c., inevitabilmente più complesso perché volto a procurare la plena cognitio del Giudice sui fatti a lui devoluti.

VII) Considerazioni finali

In un quadro di tendenziale riduzione dell’attività notarile e di malcelata volontà di ridimensionare il ruolo del notaio, non può essere sottaciuto lo stridente contrasto della novella dell’art. 474 c.p.c., ad opera della l. 80/2005, con la legislazione immediatamente successiva.

La predetta novella ha sostanzialmente riconosciuto al notariato un ruolo insostituibile nel campo della formazione dei titoli stragiudiziali per l’esecuzione in forma specifica di determinati obblighi di fare: fino all’introduzione della novella, infatti, l’attuazione degli obblighi di consegna o rilascio richiedeva il previo apprezzamento del Giudice, che egli solo poteva formare in contraddittorio il titolo esecutivo.

La specificità di questa (relativamente nuova) attribuzione del notariato, oltre a forire nuovi campi di operatività, appare un’occasione da non perdere per accreditare la centralità della nostra funzione nell’ambito dell’ordinamento italiano.

 

 

[1] V. sin d’ora A.M. Marzocco, L’atto notarile come strumento per la tutela esecutiva dei diritti, in Quaderni della Fondazione Italiana del Notariato, n. I/2013, a cura di P. Sirena, Gruppo 24 Ore, 2013, nonché Questioni in tema di titolo esecutivo per il rilascio, studio CNN n. 7/2007/E approvato dalla Commissione esecuzioni immobiliari il 2 febbraio 2007.

[2] Invero, nella quasi totalità dei casi, il contratto di locazione è concluso mediante la sottoscrizione di modelli predisposti dall’Agente immobiliare o mediante la sottoscrizione di contratti predisposti dall’Avvocato della proprietà.

Nel primo caso, la necessaria genericità di un modello standard non riflette la (spesso articolata) volontà dei contraenti, il cui interesse potrebbe essere rivolto non solo alla disciplina degli elementi principali (oggetto, durata e canone), ma anche alla regolamentazione di specifici aspetti della locazione.

Detto altrimenti, adottando un modello standard, il rischio è di dar vita ad un regolamento contrattuale che, prima ancora di essere poco aderente alla effettiva volontà dei contraenti, si dimostra incompleto. Vengono, infatti, lasciati privi di idonea disciplina pattizia molteplici aspetti (quali – ad es. – migliorie, manutenzione ordinaria e straordinaria, imputazione dei canoni in presenza di arretrati) che, generando dubbi o incertezze, spesso determinano l’insorgere di controversie tra le parti.

Diverso è il caso in cui il contratto sia predisposto dall’Avvocato della Proprietà.

In tale evenienza, occorre considerare che:

  • da un lato, il conduttore, pur di conseguire la materiale disponibilità dell’immobile, tende ad accettare le condizioni della Proprietà;
  • dall’altro, il contratto riflette la naturale parzialità dell’Avvocato che, per definizione, cura gli interessi del proprio cliente.

Ora, il contratto, pur con i limiti connessi alla forma della scrittura privata non autenticata, è certamente idoneo a tutelare le ragioni dominicali.

Lo stesso regolamento contrattuale, tuttavia, può ugualmente risultare incompleto, rispecchiando non già la volontà comune ad entrambe le parti, bensì la sola volontà e le giuste preoccupazioni della Proprietà.

In tale contesto, non sembra potersi prescindere dall’indagine sulla comune volontà delle parti, indagine propria dell’attività notarile, del caso cercando il giusto contemperamento laddove vi siano divergenze tra le stesse.

Invero, il ministero del notaio, oltre a garantire il completo accertamento della volontà delle parti, culmina nel ricevimento di un atto pubblico, di un atto, cioè, che costituisce titolo non solo per la riscossione forzata delle somme dovute in virtù del medesimo, ma anche per l’esecuzione in forma specifica degli obblighi di rilascio.

[3] Per perfezionamento della notifica dell’atto (giudiziario e non) si intende la cognizione legale dell’atto notificato e consegnato nelle forme di legge. Tali forme, se rispettate, non possono non mettere il destinatario in condizione di conoscere l’atto notificato.

[4] Si noti la pericolosità dell’ampio dato normativo, che lascia al Giudice grande discrezionalità nella valutazione della situazione di fatto. Tale discrezionalità, vieppiù nell’attuale momento storico (che fa registrare una gravissima emergenza sanitaria per la pandemia da COVID-19), dischiude significative incertezze sui tempi di recupero del bene.

[5] V. quanto detto alla precedente nt. 4.

[6] In tal senso, C. Mandrioli-A. Carratta, Corso di diritto processuale civile11, III, Giappichelli, 2013, 113 e ss.

[7] Tale giudizio, come accennato al precedente punto II.3, pur avendo inizio nelle forme del procedimento sommario di cui agli artt. 657 e ss. c.p.c., facilmente potrebbe dilatarsi in un giudizio a cognizione piena, regolato dalle norme del rito speciale di cui all’art. 447-bis c.p.c., determinando un tanto cospicuo quanto non preventivabile allungamento dei tempi necessari al recupero della materiale disponibilità della res locata.

[8] Con riferimento al perfezionamento della notifica del titolo in forma esecutiva, peraltro, si pongono le medesime problematiche supra accennate al par. II.1.

[9] Si pensi, quale fatto impeditivo, alla inesigibilità della prestazione per mancata disdetta o per mancata scadenza del termine di rilascio; quale fatto modificativo valga l’ipotesi della parziale rovina della res locata; da ultimo, quale fatto estintivo valgano il tempestivo adempimento, la distruzione totale della res ovvero la sua spontanea riconsegna al proprietario.

[10] V. Questioni in tema di titolo esecutivo per il rilascio, cit.

[11] Il riferimento è ai fatti modificativi od estintivi i quali coincidono sostanzialmente con la sopravvenuta impossibilità, parziale o tale, della prestazione o con il suo adempimento.

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L’atto pubblico quale titolo esecutivo per il rilascio ed il suo impiego nelle locazioni immobiliari ultima modifica: 2020-09-22T08:30:53+02:00 da Redazione Federnotizie
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