L’arte dello storytelling: come di questi tempi, se non sai raccontare cosa hai fatto, di fatto non hai fatto nulla

“Finché le gazzelle non sapranno raccontare le loro storie, i leoni saranno sempre protagonisti dei racconti di caccia.”

(Proverbio africano)

Storytelling, ovvero, semplicemente, raccontare.
Narrami o Musa, così iniziano i poemi omerici. Raccontami una storia, chiedono i bambini prima di addormentarsi.

Raccontare e raccontarsi è un istinto innato dell’essere umano. Tutti noi siamo delle storie, ogni giorno: il nostro modo di camminare, di parlare, la camicia scelta la mattina nell’armadio e il vino ordinato al ristorante raccontano molto di ciò che siamo.

Il racconto diventa storytelling quando, da individuale, ha la capacità di farsi collettivo: è nel passaggio dalla prima persona singolare io alla prima persona plurale noi la chiave di questa tecnica di comunicazione, ovvero quando la storia di uno diventa la storia di molti.

Creare uno storytelling efficace significa quindi unire quanti più soggetti nella stessa storia.

Per una corretta definizione di storytelling – termine troppo spesso abusato o usato a sproposito -, mi piace partire da ciò che storytelling non è: non si tratta di hashtag, tweet, frasi ad effetto, citazioni, camicie bianche, selfie, post su Facebook, libri o interviste. Tutti questi elementi possono essere parte di una narrazione, ma non sono storytelling tout court.

La mia personale definizione di storytelling si fonda sulla sensibilità del professionista di comunicazione, capace di sintonizzarsi sulla storia altrui e raccontarle in modo genuino e coerente con la sensibilità del pubblico. Definirei dunque lo storytelling come l’arte di costruire una storia capace di costruire l’identità del protagonista in perfetta risonanza con la storia del momento presente.

Storicamente, la tecnica comunicativa dello storytelling nasce agli inizi del nuovo millennio, con la crisi del marketing tradizionale e l’avvento della globalizzazione.

La pubblicità così come la conosciamo è morta, inizia l’epoca dello storytelling”, dichiarò Sergio Ziman, direttore marketing di Coca-Cola nel 2002: è il passaggio dalla forza comunicativa del logo a quella della story. Nel Duemila il brand non basta più, i consumatori vogliono conoscere la storia che c’è dietro.

Per uno storytelling professionale, non è sufficiente raccontare una storia: esistono delle strategie specifiche. Serve un piano di comunicazione che sappia unire narrazione e performance, così da connettere il protagonista al suo pubblico, focalizzare il dibattito sui temi di interesse, dettare l’agenda mediatica e non subirla, creare un network di fidelizzazione.

La storia, quindi, non deve avere solo valore divulgativo, bensì performativo: bisogna vivere quella storia ed essere sempre fedeli a ciò che si racconta. L’identità deve essere chiara, riconoscibile e forte. Fondamentale è comprendere il tempo presente e la sensibilità collettiva e offrire la storia che richiede. Il target dovrebbe essere il più ampio possibile, in generale tutti, perché più ampio è l’orizzonte della storia, più persone vorranno farne parte -vorranno poter dire noi.

Narrare non è quindi solo questione di belle frasi, ma soprattutto di ritmi giusti: uno storytelling, politico o corporate, può essere paragonato alla sceneggiatura di una serie TV. In ogni puntata il protagonista affronta delle avversità, metabolizza gli avversari rendendoli parte della storia, trasmette la sua visione del mondo, il tutto coerentemente con la trama complessiva della serie. Soprattutto, uno storytelling si può dire efficace quando il pubblico vorrebbe che la storia non finisse mai.

Storytelling

Illustrazione grafica delle tecniche di costruzione di una storia

What’s in a name?, si chiedeva Shakespeare in Romeo e Giulietta a proposito di una rosa. Nel 2015, cosa c’è dietro il nome del nuovo prodotto offerto da una banca? Cosa c’è dietro il nome di una malattia rara e poco nota? Cosa c’è dietro una figura professionale come quella dell’assicuratore, dell’imprenditore e, perché no, anche del notaio? Queste sono solo alcune delle sfide che ho accettato da storyteller di professione nell’ambito corporate.

In generale, si tratta di prendere le misure della distanza tra la realtà e la realtà percepita e raccontare una storia che possa avvicinarle presso il target di riferimento.

In un mondo in cui oltre la metà degli under 30 possiede un conto esclusivamente online, la banca fisica non sarà più, quindi, un luogo grigio, remoto, noioso, sede di moduli e lunghe code. Una malattia può colpire solo una minima percentuale di persone e avere un nome impronunciabile, ma dietro a quel termine scientifico c’è tutta la sofferenza dei malati che meritano di essere ascoltati. Un piccolo imprenditore d’eccellenza che si ostina a produrre nella fabbrica che era prima di suo padre e di suo nonno anziché fare le valigie per la Cina è oggi un eroe, non un qualunque uomo di successo degli anni Ottanta, quando il futuro era alla portata di tutti. Un assicuratore, oggi, capace di emettere con un tablet polizze contro il cyber risk o le bombe d’acqua non è certo il ragionier Fantozzi con tutte le sue scartoffie.

In conclusione, l’arte dello storytelling non è marketing -finalizzato a vendere- o propaganda -finalizzata a persuadere. L’arte dello storytelling risponde oggi ad un bisogno: la realtà presente corre e cambia così velocemente che deve essere raccontata per essere compresa da tutti -pena il rischio di essere imprigionati dal passato, da storie già concluse.

Ed ecco che nel 2015 essere non è più sufficiente: bisogna sapersi raccontare. Se non sai raccontare cosa hai fatto, di fatto non hai fatto nulla.

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L’arte dello storytelling: come di questi tempi, se non sai raccontare cosa hai fatto, di fatto non hai fatto nulla ultima modifica: 2015-10-22T14:21:05+02:00 da Andrea Marcolongo
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