Il valore confessorio della dichiarazione: effetti, limiti e utilità della ricognizione di precedenti donazioni
Con la recente ordinanza 8 giugno 2022 n. 18550 la Corte di Cassazione ha stabilito che la dichiarazione contenuta in un testamento, con cui il testatore affermi di aver donato un bene che, invece, era stato apparentemente venduto, va qualificata confessione stragiudiziale costituendo affermazione vantaggiosa per i legittimari e sfavorevole per l’erede. In particolare la decisione in commento origina da una controversia promossa dai legittimari che agivano in riduzione, previo accertamento di una donazione dissimulata compiuta dal de cuius: in tutti i gradi di giudizio è stato affermato ed accertato che la dichiarazione contenuta nel testamento, con la quale il testatore ha dichiarato di aver donato il bene apparentemente venduto, deve essere assimilata ad una confessione stragiudiziale, trattandosi di affermazione vantaggiosa per i legittimari e sfavorevole per l’erede[1]: il valore confessorio di tale dichiarazione può essere opposto all’erede in quanto subentrante nella medesima situazione del proprio dante causa[2]. E’ questo il principio di diritto stabilito dalla Corte di Cassazione che ha rigettato il ricorso e confermato la decisione resa dalla Corte d’appello la quale ultima, respingendo l’appello, ha a sua volta confermato la sentenza di primo grado.
La decisione è parsa una buona occasione per fare il punto sullo stato dell’arte, in dottrina e in giurisprudenza, sul valore e sugli effetti che può assumere una ricognizione testamentaria (e non solo) di precedenti liberalità non donative. E’ infatti abbastanza frequente, nella prassi notarile, la richiesta da parte del testatore di consacrare nel suo testamento la situazione giuridica, da valere post mortem, originata dalle liberalità che egli ha effettuato (in vita) ai propri eredi o ad altri soggetti. Risponde inoltre ad una esigenza meritevole di tutela che il donante, dopo avere operato una sistemazione patrimoniale totale o parziale con atti tra vivi, tra cui una o più donazioni indirette, senta il desiderio e richieda al notaio di “fare il punto della situazione” in sede testamentaria, stilando un resoconto delle liberalità dirette o indirette effettuate in vita e procedendo agli eventuali ultimi aggiustamenti al fine di prevenire disparità tra legittimari o financo impugnazioni da parte dei medesimi. Si tratta della tipica funzione anti-processuale che in ipotesi come questa, accompagnata dal sapere giuridico e spesso anche delle vicende famigliari, può consentire, mancato il testatore, una sistemazione degli asset più sicura, in linea con i suoi desiderata e, se ben ponderata, scevra anche da litigi famigliari e impugnazioni.
I fatti e la decisione
Nei fatti, la decisione della Corte d’appello, non cassata dal giudice di legittimità, ha confermato la sentenza di primo grado, che aveva accolto la domanda di simulazione di un trasferimento immobiliare stipulato tra il defunto, quale venditore, e un erede quale compratore: la ratio decidendi trova fondamento nella circostanza che, nel testamento, il de cuius aveva dichiarato che quell’immobile era stato, in realtà, da lui donato in vita. La dichiarazione configura infatti una confessione stragiudiziale (art. 2735, comma 1, c.c.), avendo il defunto manifestato la volontà testamentaria di attribuire legati in conto di legittima ai tre figli ponendoli a carico dell’erede che aveva ricevuto (in vita) il bene senza corrispettivo.
Ha osservato il Supremo Collegio che i legittimari, agendo per la reintegra della loro quota di riserva con contemporanea declaratoria della simulazione del contratto di apparente compravendita dissimulante una donazione, devono essere considerati terzi rispetto alla prova della simulazione di quel contratto[3]. Confermando l’interpretazione delle corti territoriali, anche secondo la Cassazione, quella dichiarazione costituirebbe “confessione stragiudiziale” del testatore avente ad oggetto la prova della natura simulata del contratto di compravendita da lui stipulato in vita.
La confessione stragiudiziale: la sua natura quando contenuta in un testamento
E’ la stessa legge a consentire che la confessione stragiudiziale possa essere contenuta anche in un testamento. L’art. 2735, co. I, C.C. dispone infatti che “La confessione stragiudiziale fatta alla parte o a chi la rappresenta ha la stessa efficacia probatoria di quella giudiziale. Se è fatta a un terzo o se è contenuta in un testamento, è liberamente apprezzata dal giudice”. La confessione, quando contenuta nel negozio mortis causa, assume natura di disposizione testamentaria non patrimoniale tipizzata[4], in quanto prevista direttamente dallo stesso legislatore. Essa resta, anche in tale forma, una dichiarazione di scienza, perché il testatore confitente dichiara fatti di cui è a conoscenza senza esprimere alcuna volontà negoziale. La dichiarazione confessoria, inoltre, si ritiene sopravviva alla revoca del testamento: anche se questo può essere sempre revocato dal testatore, la disposizione con cui il testatore rende una confessione è considerata non suscettibile di essere revocata[5], salvo che sia stata determinata da errore di fatto o violenza ex art. 2732 c.c. In altre parole, la revoca del testamento con cui si è resa la dichiarazione confessoria non ha effetti su quest’ultima, che rimane valida ed efficace ponendosi, se del caso, una questione di prova.
La questione degli effetti di una confessione (equiparata a quella stragiudiziale) contenuta in un testamento richiede peraltro una precisazione più generale sulla sua concreta portata. Come chiarito da un Autore[6] che si è occupato sistematicamente del riconoscimento delle liberalità bisogna premettere, a livello sistematico, che il riconoscimento di una precedente donazione indiretta da parte del donante non sembra idoneo ad accertare definitivamente la situazione precedente con l’efficacia tipica di un vero e proprio negozio di accertamento. Ciò in quanto manca la dichiarazione di volontà della parte che ha un interesse contrario all’accertamento della fattispecie. Appare, quindi, più corretto inquadrare anche in tale ipotesi la dichiarazione unilaterale del donante nella disciplina della confessione stragiudiziale, trattandosi dell’ammissione di un fatto sfavorevole per il dichiarante, nel senso che comporta per lui una diminuzione patrimoniale, essendogli preclusa, dopo la dichiarazione, qualunque azione di restituzione nei confronti del beneficiario. Essa sarà soggetta e normata dall’art. 2735 C.C.: trattandosi di una confessione stragiudiziale, che non viene resa nei confronti della parte, quale mezzo di prova, essa sarà liberamente apprezzata dal giudice. La medesima valenza probatoria dovrà quindi riconoscersi alla dichiarazione del (già) donante contenuta in un testamento. Ora, un riconoscimento delle donazioni indirette, contenuto nel testamento, deve qualificarsi, ai fini probatori, come una confessione stragiudiziale liberamente apprezzata dal giudice.
Tuttavia la affermazione va ancora circostanziata in quanto, vi sono anche ipotesi in cui nemmeno la valenza probatoria di una confessione stragiudiziale possono attribuirsi ad analoghe dichiarazioni contenute in un testamento. Mi riferisco a quelle fattispecie nelle quali manca il sostrato normativo affinché possa operare il meccanismo probatorio sottostante la confessione. Significativa è al riguardo una pronuncia di merito recente[7], che ha (correttamente) ritenuto che non possa essere assimilata ad una confessione stragiudiziale, ai sensi dell’art.2935 C.C., la dichiarazione del testatore di avere già soddisfatto il legittimario con donazioni fatte durante la vita: la ragione si riviene nella circostanza che nell’azione di riduzione il legittimario (se preterito) è terzo e non può certamente essere pregiudicato dalla confessione fatta da altri. In aggiunta, il Tribunale ha considerato che tale dichiarazione sarebbe invece favorevole al testatore e ai suoi eredi e, invece, sfavorevole al legittimario: infatti, se fosse vero il fatto che il testatore ha provveduto a soddisfare in vita le pretese del legittimario, quest’ultimo non potrebbe esperire l’azione di riduzione (non potendo pretendere la reintegrazione di alcuna quota di legittima), consentendo ad altri eredi e donatari di trattenere le attribuzioni ricevute e al testamento di conservare piena efficacia. In particolare e su analoga fattispecie una recente decisione della Corte di Cassazione[8] ha affermato chiaramente che costituisce principio fermo, condiviso dal Collegio, la constatazione che “la dichiarazione del testatore di avere già soddisfatto il legittimario con antecedenti donazioni non è idonea a sottrarre allo stesso la quota di riserva, garantita dalla legge anche contro la volontà del de cuius; né tale dichiarazione può essere assimilata ad una confessione stragiudiziale opponibile al legittimario, essendo egli, nell’azione di riduzione, terzo rispetto al testatore (Sez. 2, n. 11737, 15/5/2013, Rv. 626733); ne’, occorre soggiungere, può (in tal caso) rinvenirsi l’essenza della dichiarazione confessoria, cioè che il dichiarato costituisca fatto sfavorevole al dichiarante.”. In altre parole la Cassazione ha confermato il dato empirico secondo cui la mera asserzione, contenuta nel testamento, di aver beneficiato in vita il legittimario che sia stato pretermesso (o anche solo leso) non è probante di per sé e non priva il legittimario del diritto potestativo di agire in riduzione. D’altro canto, sul piano fattuale, appare evidente che una dichiarazione di tal genere potrebbe essere stata posta in essere dal testatore proprio al fine di privare in tutto o in parte il legittimario della quota di riserva.
Resta allora da chiedersi quale effetto possano avere tali dichiarazioni contenute nel testamento in difetto dei requisiti tali da farle assurgere a confessione. In tali specifiche ipotesi la dichiarazione resa dal testatore, pur non potendo essere – in contesti come questi – assimilata ad una confessione stragiudiziale ex art. 2735 C.C. per la mancanza dell’elemento essenziale dell’elemento sfavorevole al confitente o, meglio, ai suoi eredi, non è comunque del tutto priva di valore probatorio potendo costituire un elemento, anche rilevante, volto a formare il convincimento del giudice: la dichiarazione rientrerà nel novero delle prove atipiche, che sono soggette al prudente apprezzamento del giudice ai sensi dell’art. 116 c.p.c. secondo cui “Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti”.
In relazione agli effetti della confessione testamentaria propriamente intesa e quindi avente contenuto sfavorevole al confitente, essa, pur non avendo efficacia di prova legale, non andrà valutata quale mero indizio, idoneo unicamente a fondare una presunzione ovvero ad integrare una prova manchevole, ma sarà mezzo di prova diretta, su cui il giudice può basare anche esclusivamente il proprio convincimento in esito al libero apprezzamento. In altre parole, come affermato da un attento Autore[9], il giudice di merito, nell’esercizio di un potere discrezionale ed insindacabile in sede di legittimità, potrà, quindi, sostanzialmente elevare al grado di piena prova anche la confessione stragiudiziale resa ad un terzo o contenuta in un testamento ritenendola, nel suo apprezzamento discrezionale, prevalente rispetto alle altre prove offerte od acquisite in causa; affinché ciò accada, ripetesi, dovrà aver avuto esito positivo l’indagine volta a stabilire che la dichiarazione della parte costituisca ammissione di fatti sfavorevoli al dichiarante e favorevoli all’altra parte. Si tratta, infatti, dell’elemento fondante la confessione sia essa giudiziale o stragiudiziale. In attuazione del predetto principio, la Cassazione[10] ha rigettato il motivo di ricorso con il quale era stata censurata la sentenza di merito nella parte in cui aveva ritenuto confessione stragiudiziale un’affermazione del ricorrente, contenuta in una scrittura privata intercorsa con l’altra parte, poiché si trattava di affermazione generica ed estrapolata dal suo contesto, in ordine alla quale non era neanche stato verificato l’animus confitendi del dichiarante.
Per accennare ad analoga fattispecie nel campo degli atti inter vivos, la Suprema Corte ha di recente riconosciuto la natura di confessione stragiudiziale, in relazione a precedenti donazioni indirette, con riguardo alla dichiarazione resa dai legittimari in una scrittura autenticata da notaio[11]. In particolare, nell’esaustivo commento di un Autore[12] si è rilevato come la Cassazione abbia espressamente riconosciuto la possibilità, da parte del notaio, di autenticare le sottoscrizioni [13], senza violare alcuna norma o principio[14], come quello del divieto di precostituzione di prova[15], contenenti dichiarazioni dei legittimari con cui gli stessi attestano di avere in precedenza ricevuto donazioni indirette.
Diversamente da quanto accade nella confessione contenuta in un testamento, ove non sempre è dato riscontrare gli elementi costitutivi ed effettuali della confessione, in tale ipotesi non vi sono dubbi sulla circostanza che, provenendo le dichiarazioni direttamente dai legittimari e con effetti per loro sfavorevoli, le stesse abbiano natura di confessione stragiudiziale: la loro utilità consiste nel facilitare la prova della esistenza delle donazioni indirette. Per le donazioni indirette, non essendo richiesta forma notarile[16] i legittimari lesi da tali atti potrebbero, pertanto, avere maggiori difficoltà a dimostrarne l’esistenza. La dichiarazione confessoria resa con atto notarile (non testamentario) da chi ha ricevuto una donazione indiretta ha, allora, come acutamente osservato dall’Autore da ultimo citato, l’effetto di parificare, sotto il profilo probatorio, la posizione dei legittimari lesi da una donazione indiretta a quelli lesi da una donazione diretta o anche, se rese da chi ha ricevuto donazioni indirette, potrebbero anche avere l’effetto di dimostrare che il donante, nelle donazioni da lui perfezionate, ha rispettato le astratte quote di riserva dei legittimari.
Conclusioni: la possibile valenza della confessione contenuta in un testamento in relazione ai soggetto che intendono giovarsene
In conclusione, quindi, anche la dichiarazione “confessoria” resa dal testatore in relazione alle precedenti donazioni può assumere una diversa valenza. In primo luogo e in ogni caso deve consistere nella rappresentazione di un fatto, che assume rilievo probatorio in relazione all’interesse di ciascuno dei contendenti: nel caso che ha dato origine a questo scritto, la confessione attribuita al testatore atteneva al fatto che il bene immobile era stato ceduto senza corrispettivo e la dichiarazione volta a confessare tale fatto dispiegava effetti sfavorevoli e favorevoli rispetto ai contrapposti interessi delle parti in giudizio.
In secondo luogo per assurgere a prova tipica di vera e propria confessione, per quanto stragiudiziale, essa deve, dal punto di vista soggettivo, essere fatta valere solo a danno dell’erede che, come visto, si trova nella medesima posizione del defunto e a favore di altro soggetto, così come il legittimario pretermesso che deve considerarsi, quando agisce in riduzione, terzo.
In assenza, invece, dei presupposti che si è cercato di sintetizzare, la ricognizione testamentaria di precedenti liberalità non potrà produrre gli effetti della confessione, ma potrà costituire elemento di giudizio agevolando la dimostrazione di quanto attribuito a titolo liberale per chi intende valersene.
Note
[1] Secondo la Cassazione (Cass. SS.UU., 25 marzo 2013, n. 7381), una dichiarazione è qualificabile, in generale, come confessione in presenza di un elemento soggettivo, consistente nella consapevolezza e volontà di ammettere e riconoscere la verità di un fatto a sé sfavorevole e favorevole all’altra parte, ed un elemento oggettivo, che si ha qualora dall’ammissione del fatto obiettivo, il quale forma oggetto della confessione escludente qualsiasi contestazione sul punto, derivi un concreto pregiudizio all’interesse del dichiarante e, al contempo, un corrispondente vantaggio nei confronti del destinatario della dichiarazione.
[2] Per quanto la descrizione abbia oggi valore prevalentemente descrittivo è principio consolidato che l’erede, infatti, all’apertura della successione, subentra nella situazione economica del de cuius, a seguito dell’accettazione, la quale, dispiegando effetti retroattivi, consente all’erede la continuazione della personalità del defunto.
[3] Il principio è ormai più che pacifico: da ultimo, si veda Cass., 21 dicembre 2021, n. 41132 e Cass., 13 giugno 2018, n. 15510.
[4] La confessione, quando veicolata dal testamento, rientra nell’ampio ventaglio di disposizioni a carattere non patrimoniale che l’art. 587, comma 2, c.c. consente di inserire nel negozio mortis causa e cui la legge riconosce efficacia se contenute in un at to che abbia la forma del testamento, anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale.
[5] Dall’art. 256 C.C., rubricato irrevocabilità del riconoscimento, secondo cui il riconoscimento di un figlio contenuto in un testamento ha effetto dal giorno della morte del testatore anche se il testamento è stato revocato, parrebbe potersi risalire al principio generale della irrevocabilità delle disposizioni testamentarie che non costituiscono dichiarazioni di volontà ma solo di scienza.
[6] Sono le parole e le intelligenti considerazioni di A. Torroni, L’accertamento negoziale di precedenti liberalità, in Relazione svolta al Convegno “Dialogo tra notai sulla circolazione degli immobili di provenienza donativa: nuove soluzioni e riflessi sull’attività negoziale”, svoltosi a Rimini l’11 aprile 2014. In tale studio possono rinvenirsi anche utilissime considerazioni (e soluzioni) sistematiche e pratiche sulla più generale questione, poco esplorata in dottrina e in giurisprudenza, degli strumenti giuridici per procedere alla ricognizione di precedenti liberalità.
[7] Mi riferisco alla sentenza, inedita, del Tribunale di Trapani del 5 settembre 2019 che riprende un principio già affermato da Cass., 15 maggio 2013 n.11737.
[8] Cass., 9 novembre 2018, n. 28785.
[9] M. Laffranchi, La confessione stragiudiziale per atto notarile, in questa Rivista, 5 dicembre 2017 attualmente reperibile a questo URL https://www.federnotizie.it/la-confessione-stragiudiziale-per-atto-notarile/
[10] Cass., 14 febbraio 2020, n. 3698.
[11] Cass., 19 maggio 2017, n. 12683.
[12] M. Laffranchi, op. ult. cit.
[13] Riterrei certamente che il principio si applichi anche agli atti pubblici ricevuti dal notaio.
[14] Secondo la Cassazione commentata dall’Autore da ultimo citato “la dichiarazione confessoria contenuta in una scrittura privata, pur se autenticata da notaio, non costituisce un atto processuale e certamente non costituisce un atto volto a precostituire una prova utilizzabile in sede giurisdizionale. Invero, l’efficacia privilegiata derivante dall’autenticazione della sottoscrizione da parte del notaio si riferisce unicamente alla circostanza che una determinata dichiarazione (nella specie, quella, intitolata “Dichiarazioni confessorie stragiudiziali”, con la quale taluni soggetti hanno reso una dichiarazione confessoria stragiudiziale ai sensi dell’art. 2735 c.c., su precedenti donazioni indirette ad esse fatte dai propri genitori, espressamente qualificata dagli stessi dichiaranti “di natura processuale e non negoziale”), e non anche al contenuto della dichiarazione, sicché, quand’anche la dichiarazione fosse stata fatta in vista di una sua possibile utilizzazione in un processo, non per questo muterebbe la propria natura, trasformandosi in atto processuale, insuscettibile di essere formato da un notaio, e resterebbe soggetta, quanto al contenuto e alla rilevanza probatoria della stessa, alla valutazione e all’apprezzamento del giudice.”.
[15] Sulla portata, ad oggi notevolmente ridimensionata, del temuto principio del divieto di precostituzione di prova si veda l’ottima ricostruzione di C. DE ROSA; La funzione notarile di certificazione e le recenti riflessioni della Cassazione sulla c.d. “precostituzione di prova” in questa Rivista, 1 dicembre 2016 attualmente reperibile a questo URL https://www.federnotizie.it/la-funzione-notarile-di-certificazione-e-le-recenti-riflessioni-della-cassazione-sulla-c-d-precostituzione-di-prova/
[16] Come è a tutti noto per le donazioni indirette è sufficiente l’osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità.
AUTORE

Ruben Israel è nato a Trieste ove si è laureato in giurisprudenza col massimo dei voti e lode. Dopo aver superato l’esame da avvocato presso la Corte d’Appello di Milano esercita l’attività di notaio con residenza nella stessa città dal 1999. E’ stato docente alla scuola di notariato della Lombardia produce contributi e partecipa come relatore a convegni in materie giuridiche collegate alla professione notarile.