a cura di Giuseppe Mattera
L’abuso del diritto rappresenta una delle più controverse elaborazioni del sistema giuridico italiano ed europeo in quanto esso segna l’inizio del tramonto del concetto di autonomia privata quale elaborato dalla dottrina più liberale e segna la legittimazione di un controllo da parte dello Stato sulle modalità di esercizio dei diritti che il medesimo riconosce agli individui.
Lo stesso termine in realtà racchiude una contraddizione che prima facie, appare insanabile; se il diritto è un complesso di facoltà che la legge riconosce ad un soggetto e che il medesimo è libero di esercitare, non vi sarebbe spazio per utilizzo illecito di tali facoltà, in ossequio al concetto “dove comincia l’abuso, finisce il diritto”.
In altri termini, una volta che il legislatore abbia determinato il contenuto del diritto, di fronte al caso concreto l’interprete dovrebbe limitarsi a valutare se l’atto sia riconducibile alla fattispecie astratta dovendosi escludere ogni ulteriore giudizio di legittimità (qui iure suo utitur neminem laedit).
Il termine “abuso del diritto” è apparso per la prima volta nella giurisprudenza francese del secolo scorso che, per la prima volta, ammise, in tema di proprietà, la legittimità di un controllo per così dire “contenutistico” dei diritti soggettivi, ammettendo la responsabilità del titolare del diritto anche qualora il danno fosse stato cagionato nell’esercizio del diritto stesso (1).
Le ragioni di questa elaborazione giurisprudenziale sono state rinvenute in un tentativo di limitare l’assolutezza dei principi enunciati, in materia di diritti soggettivi, dalla Rivoluzione Francese (2) e nella tendenza, frutto della trasformazione delle società contemporanee, all’allargamento del controllo giudiziale sugli atti dei privati.
Il principio elaborato dalla giurisprudenza francese ha poi trovato accoglimento in altri ordinamenti, come quello tedesco, dove il § 242 del BGB stabilisce che: “L’esercizio del diritto è inammissibile se può soltanto lo scopo di provocare danni ad altri”, e quello svizzero, dove l’art. 2 del codice civile recita: “Il manifesto abuso del proprio diritto non è protetto dalla legge.”. Occorre dire però che entrambe le norme non hanno trovato larga applicazione in giurisprudenza per la loro genericità, per la difficoltà di provare l’intento esclusivo di nuocere e sopratutto per la mancanza di criteri per determinare come abusivo un comportamento.
La definizione più compiuta di “abuso del diritto” è rinvenibile nell’art. 7, comma 2, delle disposizioni preliminari del codice civile spagnolo che stabilisce “La legge non protegge l’abuso del diritto o l’esercizio antisociale dello stesso. Qualsiasi atto od omissione che, per l’intenzione del suo autore, per il suo oggetto o per le circostanze di realizzazione, superi manifestamente i limiti normali di esercizio di un diritto, con danno per i terzi, darà luogo al relativo risarcimento e all’adozione di misure giudiziali o amministrative che impediscano la continuazione dell’abuso.”.
Occorre dire però che anche in questa norma, nella cui formulazione traspare il lodevole intento di circoscrivere il concetto di “abuso del diritto”, finisce per darne una definizione quantomai generica e di difficile applicazione.
L'”abuso del diritto” non è disciplinato nel nostro codice civile.
Negli anni della sua elaborazione era diffuso in dottrina il convincimento che tale concetto rappresentasse “un fenomeno sociale, non un concetto giuridico, anzi uno di quei fenomeni che il diritto non potrà mai disciplinare in tutte le sue applicazioni che sono imprevedibili” (3).
Tale convincimento e la conseguente preoccupazione che una clausola generale come quella dell'”abuso del diritto” potesse costituire un danno irreparabile alla certezza del diritto determinarono l’eliminazione dalla stesura definitiva del codice civile dell’art. 7 del progetto preliminare secondo il quale “nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto.”.
L’intento del legislatore era quello di non legittimare un controllo giudiziale sull’esercizio dei diritti che si fondasse su valutazioni metagiuridiche mutevoli nel tempo, cosa che lo ha indotto a circoscrivere l'”abuso del diritto” a singole fattispecie come quelle degli atti emulativi (art. 833 c.c.) dell’abuso della potestà genitoriale (art. 330 c.c.).
Se nell’ambito civilistico sia la dottrina che la giurisprudenza hanno sempre dubitato dell’esistenza nel nostro ordinamento di un principio generale di “abuso del diritto”, di diverso avviso è stata la giurisprudenza tributaria.
Per contrastare condotte “elusive”, i giudici tributari, in una prima fase hanno fatto ricorso ai principi della correttezza e della buona fede, applicando, in assenza di specifiche disposizioni, gli istituti civilistici della simulazione, del negozio indiretto, dell’inesistenza della causa e del negozio in frode alla legge con la conseguente dichiarazione di nullità incidenter tantum delle operazioni ritenute “elusive”.
L’introduzione dell’art. 10 dello Statuto del contribuente (Legge 27 luglio 2000 n. 212) a tenore del quale “Le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non posso essere causa di nullità del contratto” ha costretto i giudici tributari a fondare la lotta all’elusione sul diritto comunitario, dove l’art. 4 del regolamento n. 2988/95, che delinea un sistema di controlli volti a reprimere ogni tipo di comportamento abusivo in materia trattamenti agevolati, prevede al paragrafo 3 che “gli atti per i quali si stabilisce che hanno per scopo il conseguimento di un vantaggio contrario agli obbiettivi del diritto comunitario, creando artificialmente le condizioni per ottenere il vantaggio, comportano, a seconda del caso, il mancato conseguimento o la revoca del vantaggio stesso.”
Questi principi sono stati immediatamente applicati dalla giurisprudenza di legittimità che su di essi ha costruito il principio dell’ “inopponibilità” dell’atto elusivo (abbandonando la categoria civilistica della nullità dell’atto per frode alla legge) in relazione alle imposte cd. armonizzate (iva, dazi ed accise).
Lo stesso legislatore nel tentativo di combattere l’elusione è più volte intervenuto in materia di abuso del diritto, in primo luogo con l’art. 10, comma 1, della Legge n. 408 del 29 dicembre 1990, successivamente modificato dall’art. 28 della legge n. 724 del 23 dicembre 1994 e dall’art. 3 della legge n. 662 del 23 dicembre 1996 “E’ consentito all’amministrazione finanziaria disconoscere i vantaggi tributari conseguiti in operazioni di concentrazione, trasformazione, scorporo, cessione di azienda, riduzione di capitale, liquidazione, valutazione di partecipazioni, cessioni di crediti o cessione o valutazione di valori mobiliari poste in essere senza valide ragioni economiche allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta.”
La norma, che costituisce il primo tentativo di disciplinare, sia pur con portata limitata alle operazioni societarie, il fenomeno dell’abuso del diritto è ancora espressione di quella corrente di pensiero che ricollegava l’abuso del diritto al motivo fraudolento che doveva costituire l’elemento fondante dell’attività elusiva.
L’elaborazione giurisprudenziale successiva, volta a costruire una categoria autonoma dell’abuso del diritto ha ispirato il successivo intervento legislativo, di portata più ampia del precedente e concretizzatosi nell’art. 37 bis, comma 1, del D.P.R. n. 600 del 29 settembre 1973, inserito dall’art. 7 del Decreto Legislativo n. 358 dell’otto ottobre 1997 in base al quale “Sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti, i fatti ed i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposta o rimborsi, altrimenti indebiti.”
Nella norma testè riportata viene elaborata una nozione di abuso del tutto indipendente dalle ipotesi di frode, limitandosi il legislatore a richiedere che le operazioni, sia pur realmente volute e valide, abbiano come scopo essenziale quello di ottenere un vantaggio fiscale, concetto che poi ha trovato riconoscimento nella sentenza cd. Halifax della Corte di Giustizia C-255/02 del 21 febbraio 2006 per la quale per potersi configurare abuso del diritto è sufficiente appunto che lo scopo di conseguire vantaggi fiscali sia essenziale e non esclusivo, potendo quindi concorrere con altri motivi o ragioni economiche.
La Cassazione a Sezioni Unite con tre sentenze (n. 30055/08, 30056/08 e 30057/08), aderendo ad un indirizzo già affermatosi della giurisprudenza della sezione tributaria (vedi Cass. n. 10257/08 e n. 25374/2008) è andata al di là del dettato legislativo riconoscendo nel nostro ordinamento un generale principio antielusivo che troverebbe il proprio fondamento negli stessi principi costituzionali ancor prima che in quelli comunitari che peraltro si applicherebbero solo alle imposte cd. armonizzate e quindi non alle imposte dirette.
In particolare l’art. 53, comma 1, della Costituzione, in base al quale “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” mirerebbe a riconoscere pari tutela di rango costituzionale sia all’interesse della collettività al concorso di tutti alle spese pubbliche (cd. funzione solidaristica) sia all’interesse del singolo ad essere tassato nei limiti della propria capacità contributiva (cd. funzione garantista).
In questa prospettiva l’imposta, per tutti i cittadini, non sarebbe un mero costo economico, ma concretizzerebbe il dovere di contribuire alla spesa pubblica in ragione della propria capacità contributiva e da ciò deriverebbe l’immanenza nel nostro ordinamento di un principio generale antielusivo secondo il quale “il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale.“. L’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/73 sarebbe quindi solo l’esplicitazione di un più ampio principio generale che non potrebbe in alcun modo ritenersi contrastante con la riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione, “in quanto il riconoscimento di un generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario non si traduce nella imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali”.
Il consolidarsi di questo indirizzo giurisprudenziale che consente un’applicazione generalizzata del concetto di “abuso del diritto” senza creare nel contempo un sistema di tutela per il contribuente ha creato allarme nella dottrina (4) che ha segnalato come “l’impiego di forme contrattuali e/o organizzative che consentono un minor carico fiscale costituisce esercizio della libertà di impresa e di iniziativa economica nel quadro delle libertà fondamentali riconosciute dalla Costituzione e dall’ordinamento comunitario”. (5)
Proprio per porre rimedio ad un contenzioso che andava sviluppandosi in misura crescente ed al fine di approntare un sistema di tutela per il contribuente il legislatore ha introdotto all’interno dello Statuto dei diritti del contribuente l’articolo 10 bis.
Bibliografia minima
1) Così S. Patti, voce Abuso del diritto, in Digesto delle discipline privatistiche, sezione civile, Torino, 1993, pag 2 e segg.
2) S. Patti, ibidem;
3) Così “M. Rotondi, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ.. 1923, pag. 105 e segg.
4) Maurizio Villani “Elusione fiscale ed abuso del diritto” Altalex;
5) “Nessuno è tenuto a costruire il proprio fienile in modo che il Fisco vi entri con il forcone più grosso” così si espresse il Duca di Westminster dinanzi ai giudici inglesi che nel 1936 gli contestavano proprio l’utilizzo di strumenti giuridici consentiti dalla legge per conseguire un risparmio fiscale.

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