La Corte di Cassazione, con Sentenza n. 19570 del 30 settembre 2016, ha affrontato un caso di indubbio interesse, tanto per i suoi risvolti deontologici quanto per quelli più direttamente afferenti al ruolo e alle funzioni del notaio.
A cura di Corrado De Rosa
La causa ha origine in un procedimento disciplinare: è stato contestato ad un notaio di aver violato l’art. 28 L.N., per aver ricevuto un atto di accertamento dell’esistenza di un testamento smarrito, con ciò sostituendosi ai compiti dell’Autorità Giudiziaria e violando dunque i principi di ordine pubblico che sorreggono l’amministrazione della giustizia.
In particolare il notaio, a quanto consta, aveva stipulato un atto nel quale gli eredi del de cuius avevano presentato una fotocopia di un testamento, dichiarando l’originale irreperibile, e avevano dichiarato di voler dare esecuzione alle volontà testamentarie (attuando, si immagina, una conferma ai sensi dell’art. 590 c.c.).
Il punto sul quale si incentra la disamina della Suprema Corte è il procedimento logico-giuridico che deve essere percorso per giungere a una condanna ai sensi dell’art. 28 l.n.
Affermano i giudici che compito del giudizio disciplinare è “l’operazione di sussunzione della singola fattispecie alla norma che detta il precetto”. Non è sufficiente la redazione di un atto che venga dichiarato nullo, ma occorre che tale nullità sia inequivoca, cioè pacifica (Cass. 21202/2011) – o che la contrarietà dell’atto all’ordine pubblico o al buon costume sia manifesta.
Tali riflessioni sono ormai condivise anche dalla dottrina specialistica (cfr., sub art. 28, Boero-Ieva, La legge notarile, Milano, 2014; Mariconda – Casu – Tagliaferri, Codice della legge notarile, Torino, 2013).
La Cassazione afferma che i giudici d’Appello hanno qualificato l’atto notarile come negozio di accertamento di situazione controversa, con addebito di essersi così il notaio “surrogato ad un’attività di cognizione riservata all’Autorità Giudiziaria”; ma nella sentenza impugnata sarebbe mancato il necessario approfondimento sul requisito della manifesta contrarietà di tale negozio all’ordine pubblico (non ricorrendo nel caso di specie una norma positiva violata dalla condotta del notaio).
Mancando, nella sentenza impugnata, una idonea motivazione sul tema dell’inequivocità della nullità o sulla manifesta contrarietà all’ordine pubblico del comportamento contestato, la Corte cassa la sentenza d’appello con rinvio – chiedendo alla nuova Corte d’Appello di valutare “se quello specifico atto notarile costituisca, con evidenza univoca e indiscutibile, un tentativo di sostituzione dell’opera del notaio a quella degli organi giurisdizionali”.
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La sentenza in commento è certamente condivisibile con riguardo ai suoi risvolti disciplinari e all’interpretazione che viene fatta dell’art. 28 l.n.; si colloca nel solco del più recente orientamento della magistratura e della dottrina, diretto a delimitare i contorni del divieto ai soli atti certamente nulli, perché in aperto contrasto con il disposto normativo, o configgenti con un’inequivoca e stabile interpretazione giurisprudenziale (si pensi al patto commissorio), o ancora evidentemente contrastanti con l’ordine pubblico e il buon costume.
La Corte precisa l’importanza dell’indagine processuale sui requisiti indicati dagli avverbi “espressamente” e “manifestamente” – che assumono così un ruolo centrale nell’indagine disciplinare.
Ciò che più interessa, però, è un argomento che resta sullo sfondo della pronuncia, ma che pare centrale: il rapporto tra funzione notarile e competenze dell’autorità giudiziaria.
Nella sentenza sembra, a prima vista, adombrata un’opinione decisamente restrittiva: l’atto del notaio contrasterebbe con l’ordine pubblico in quanto il suo oggetto (l’accertamento della situazione di fatto) è di competenza dell’Autorità Giudiziaria.
Una simile ricostruzione riporta alla memoria remote pronunzie di Cassazione (Cass. 11 giugno 1969 n. 2067; Cass. 20 aprile 1963 n. 977; Cass. 13 novembre 1957 n. 4380) che affermavano la sussistenza di un divieto per il notaio di “precostituzione di prova”.
Si riteneva che le funzioni del notaio fossero limitate all’ambito negoziale, e che le sue competenze con riguardo ad atti non negoziali fossero solo quelle tassativamente indicate nell’art 1 della legge notarile.
Tale orientamento pare superato dalla giurisprudenza più recente (Trib. Torino, 15 dicembre 1993; Trib. Napoli 16 maggio 1986; Trib. Palermo 5 luglio 1979; Cass. 2 aprile 1982 n. 2021) ma anche da un fondamentale Studio del Consiglio Nazionale del Notariato n. 432-2012/C (http://www.notariato.it/sites/default/files/432-12-c.pdf).
Secondo l’opinione preferibile, e che oggi pare prevalente, l’art. 1 r.d.l. n. 1666 del 1937, nonché lo stesso art. 2699 c.c. sono norme di sistema: non sono cioè dirette a individuare e limitare la competenza del notaio, dandola piuttosto per presupposta.
In altre parole se la tesi più tradizionale limitava la competenza del notaio (anche) in tema di verbali di constatazione alle sole ipotesi tassativamente indicate per legge, il secondo orientamento afferma che non sussistono limiti alla natura e all’oggetto dei verbali non negoziali che possono essere ricevuti dal notaio, in quanto è la legge stessa ad affidargli, tra gli altri, anche il ruolo di certificatore.
Un forte contributo positivo all’opinione più estensiva discende oggi dalla novella dell’art 769 comma quarto c.p.c. (come modificato ad opera della legge n. 10 del 17 febbraio 2012): la norma prevede, in tema di inventario, la facoltà per l’interessato di affidare la redazione dell’inventario a un notaio di sua scelta – senza che occorra alcuna delega giudiziale.
La norma, dettata in tema di inventario di eredità, ha secondo l’opinione unanime degli interpreti portata assolutamente generale, ed è diretta cioè a disciplinare la formazione di tutti gli inventari previsti per legge o richiesti per volontà dei privati.
Da queste considerazioni si desume che il ruolo del notaio nell’ambito degli atti non negoziali non è relegato alle sole fattispecie tipiche previste dall’art. 1 l.n., in cui il notaio assume funzione di pubblico certificatore su delega del giudice: lo stesso quarto comma dell’art 769 c.p.c. prevede la possibilità espleti tale ministero su semplice richiesta delle parti.
Così espressamente lo studio del CNN sopra citato: “sussiste ormai nel nostro ordinamento una norma del codice di procedura civile, avente una portata di carattere generale in tema di inventari (e non circoscritta al solo inventario dei beni ereditari), qual è per l’appunto il nuovo art. 769 c.p.c., in forza della quale un significativo numero di inventari (non delegati dall’autorità giudiziaria) non sono sicuramente riconducibili nell’ambito della previsione di cui all’art. 1, secondo comma, n. 4 lett. b) (la quale presuppone inequivocabilmente la delega dell’autorità giudiziaria) e non possono, conseguentemente, non rinvenire il loro referente, sul piano della competenza notarile, nella previsione di carattere generale di cui al primo comma dell’art. 1 l. not.”.
Ciò premesso, è importante stabilire che valore abbiano le informazioni e i dati raccolti dalla certificazione notarile – anche per giungere a un riscontro con la pronunzia in commento.
È su questo punto, infatti, che si determina la sussistenza o meno si un eventuale “sconfinamento” del notaio in un ambito certamente estraneo alle sue competenze: la formazione delle prove c.d. tipiche.
Si può sinteticamente ricordare che l’ordinamento riconosce e dà indiscutibile valore ai mezzi di prova tipici, previsti dalla legge, formati in giudizio in contraddittorio tra le parti e davanti al giudice. Ma tali non sono i verbali notarili di constatazione (sia che raccolgano testimonianze, sia che diano atto dello svolgimento di operazioni, di dichiarazioni e di fatti).
In particolare, con riferimento al tema del verbale di constatazione, è chiaro che le dichiarazioni (di scienza) effettuate davanti al notaio e verbalizzate nell’atto:
- non integrano nessuna delle tipologie codicistiche di prova documentale (atto pubblico, scrittura privata, etc.);
- sono assunte con modalità differenti da quelle disciplinate dal codice di rito civile per le prove testimoniali.
Ci si trova pertanto nell’ambito delle prove c.d. atipiche – non regolate e disciplinate per legge – la cui ammissibilità ed efficacia probatoria è stata oggetto di notevole dibattito in passato.
All’oggi la giurisprudenza, nonostante le opinioni di parte della dottrina che ancora propende per la tesi negativa, è giunta ad attribuire un qualche valore probatorio alle dichiarazioni e alle testimonianze scritte (i.e. assunte fuori dal processo e al di fuori delle recenti fattispecie di cui agli artt. 257-bis c.p.c. e 103-bis c.p.c. – novellati nel 2009).
In sintesi si può affermare che il contenuto dei verbali di constatazione non è una prova piena, ma può essere liberamente apprezzato dal giudice per fondare, insieme ad altri indizi o ad altre prove, il suo convincimento sul caso. Qui l’occasione di ricollegarsi alla sentenza in commento, per una riflessione conclusiva.
Non conoscendo il contenuto e i termini dell’atto ricevuto dal notaio convenuto in giudizio disciplinare non c’è modo di acclarare in che termini il suo atto fosse stato diretto a formare un mezzo di prova e/o a convalidare un testamento inesistente; tale compito spetta ai giudici del rinvio.
Però le riflessioni sopra svolte possono forse aiutare a comprendere il rapporto che intercorre tra un (ben redatto) verbale di constatazione – diretto a raccogliere dichiarazioni, dar conto dello svolgimento di attività o di fatti – e l’attività del giudice in sede di istruzione preventiva: solo la seconda attività produce prove, mentre la prima fornisce notizie, indizi, che possono concorrere a formare la decisione, ma non hanno sicuramente il potere di vincolare l’autorità giudiziaria alle risultanze del verbale del notaio.
L’attività posta in essere dal notaio quale certificatore, può avere una indubbia utilità in ambito stragiudiziale: si pensi alla materia dei brevetti (verbalizzazione di test tecnici), degli appalti (stato dei lavori), alla conformità tra una fotografia ed un luogo o un oggetto, alla localizzazione di cose e persone ecc.
Si può avere, come già detto, anche una – seppur non centrale – funzione nel processo, essendo ammissibile quale “prova atipica”, dotata di minor valenza probatoria ma comunque, secondo la giurisprudenza, fruibile quale indizio o notizia.
Si deve notare che la sentenza in commento, nonostante a prima vista sembri abbracciare un’opinione più restrittiva di quella qui esposta, è in realtà, a mio giudizio, perfettamente compatibile con gli approdi cui è giunto il Consiglio Nazionale del Notariato e con un importante precedente (Cass. 6313 del 11 luglio 1996), ove la stessa Suprema Corte ha affermato “L’atto con cui il notaio riceve le dichiarazioni dei legittimari dirette a confermare espressamente le disposizioni testamentarie rese in forma orale dal de cujus, sulle premesse – dai medesimi dichiarate – dell’inesistenza di un testamento formale e della ripetuta, dettagliata e mai revocata volontà del defunto, espressa oralmente, circa la destinazione dei propri beni, non invade i compiti di accertamento riservati all’autorità giudiziaria, in ordine (nella specie) all’esistenza ed alla nullità del testamento nuncupativo (…), e non è quindi suscettibile di esser disciplinarmente sanzionato (…) tenuto altresì conto che la fede privilegiata propria dell’atto notarile non si estende al contenuto della dichiarazione di convalida, rispetto al quale non è quindi configurabile alcuna attività di accertamento da parte del notaio.”
La sentenza in commento chiede al giudice del rinvio se lo “specifico atto notarile costituisca, con evidenza univoca e indiscutibile, un tentativo di sostituzione dell’opera del notaio a quella degli organi giurisdizionali”.
Da questa domanda e dalla lettura del precedente citato si desume che il notaio può dirsi responsabile quando si sostituisca al giudice nell’atto di decidere (i.e. in tema di esistenza o meno di un testamento, di validità di un contratto, ecc.), mentre resta nell’ambito della sua funzione se si limita a raccogliere, su richiesta delle parti, anche a mezzo dello strumento fornito dall’art. 769 comma 4 c.c., dichiarazioni, memoria di fatti e di operazioni compiute in sua presenza – dato che questa attività non può essere diretta a costituire prove c.d. tipiche e quindi non può vincolare o surrogare i compiti del giudice.

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