Impresa familiare con partecipazione del convivente e dell’unito civilmente

Le norme di riferimento

La Legge 20 maggio 1976 n. 76 (Cirinnà), nell’istituire le unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplinare il regime delle convivenze di fatto, ha preso in esame l’istituto dell’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c. estendendone l’ambito di applicazione.

Da un lato, infatti, l’art. 1 comma 13 della L. 76/2016 dispone espressamente l’applicazione alle unioni civili dell’art. 230 bis c.c., contenuto nella sezione VI capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile al quale la norma fa rinvio.

Inoltre il comma 20 del medesimo articolo prevede che le disposizioni di legge contenenti le parole “coniuge” o “coniugi” o termini equivalenti debbano essere applicate anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso.

Dall’altro lato, l’art. 1 comma 46 della L. 76/2016 introduce nel codice civile un nuovo articolo 230 ter in base al quale al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato.

La tutela civilistica

Come anticipato, la posizione dell’unito civilmente che presta la propria attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare è equiparata a quella del coniuge; lo stesso pertanto gode, ai sensi dell’art. 230 bis c.c., di una complessa posizione partecipativa che attribuisce sia diritti patrimoniali che diritti amministrativi.

Con riferimento ai diritti patrimoniali, la legge riconosce all’unito civilmente che partecipa all’impresa familiare il diritto al mantenimento, commisurato alla condizione patrimoniale della famiglia, di modo da potergli garantire, a prescindere dall’andamento dell’impresa, la possibilità di percepire dall’attività i mezzi necessari a soddisfare le normali esigenze di vita.

Allo stesso spetta inoltre il diritto di partecipare agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato (c.d. diritto di partecipazione in senso stretto).

Quanto agli utili, la dottrina prevalente ritiene che la maturazione di tale diritto coincida normalmente con la cessazione dell’impresa familiare ovvero con la collaborazione del singolo partecipante, ferma restando la possibilità che i familiari decidano diversamente, stabilendo una distribuzione periodica.

Quanto all’eventuale acquisto di beni con utili dell’impresa, si discute in dottrina in ordine al riconoscimento, in capo al collaboratore, di un diritto reale su tali beni ovvero di un diritto di credito.

Sembra preferibile l’opinione di quella dottrina che, anche in considerazione di una più agevole circolazione dei beni, riconosce la sussistenza di un diritto di credito la cui riscossione potrà avvenire al momento della cessazione dell’impresa.

Quanto infine al concetto di incrementi dell’azienda, sembra potersi ricomprendere in tale espressione qualunque aumento di valore dell’azienda o dei singoli beni aziendali, tenendo in considerazione anche l’avviamento.

Passando all’esame dei poteri gestori, l’art. 230 bis c.c. riconosce al familiare il diritto di partecipare alle decisioni relative all’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa; tali decisioni sono adottate a maggioranza, disponendo ciascun familiare di un diritto di voto.

Si ritiene in dottrina che detti poteri gestori abbiano carattere strumentale rispetto al conseguimento dei diritti patrimoniali attribuiti ai collaboratori dell’impresa.

Restano implicitamente in capo all’imprenditore le decisioni relativa all’amministrazione ordinaria, per tale intendendosi il compimento di tutti gli atti rientranti nel normale andamento dell’impresa.

In considerazione del carattere strettamente personale della partecipazione all’impresa familiare, il quarto comma della norma in esame consente il trasferimento del diritto di partecipazione soltanto a favore di altro familiare (legato all’imprenditore da vincolo di coniugio, parentela entro il terzo grado o affinità entro il secondo) con il consenso unanime dei partecipanti. Quanto all’oggetto di tale trasferimento, si discute in dottrina se esso concerna soltanto il diritto di credito agli utili e agli incrementi ovvero abbia a riguardo anche il “posto di lavoro nell’ambito dell’impresa familiare”.

Da ultimo la legge riconosce all’unito civilmente il diritto di prelazione sull’azienda in caso di divisione ereditaria o trasferimento della stessa.

La posizione del convivente di fatto che partecipa all’impresa familiare del partner è stata presa in considerazione dal legislatore del 2016 mediante l’introduzione nel codice civile di un nuovo articolo 230 ter.

L’applicazione della norma presuppone la nozione di convivenza individuata dal comma 36 dell’art. 1 L. 76/2016, in base alla quale “si intendono per “conviventi di fatto” due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile.”

A questo proposito si evidenzia che la convivenza rilevante prescinde dalla circostanza che la coppia sia formata da persone di sesso diverso o dello stesso sesso.

Deve inoltre evidenziarsi che il successivo comma 37 precisa che, ferma restando la sussistenza dei presupposti del comma 36, per l’accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui agli artt.4 e 13 del D.P.R. 223/1989.

Da ciò la dottrina argomenta la rilevanza meramente probatoria della dichiarazione anagrafica, restando la stabile convivenza elemento costitutivo della fattispecie; le risultanze anagrafiche, tuttavia, assumerebbero il valore di presunzioni legale della stabile convivenza.

Quanto alla tutela riconosciuta al convivente di fatto dall’art. 230 ter c.c., deve evidenziarsi la minore ampiezza dei diritti allo stesso riconosciuti rispetto al disposto dell’art. 230 bis c.c.

La norma si limita infatti ad attribuire al collaboratore convivente che presta stabilmente la propria opera, una partecipazione agli utili dell’impresa familiare e ai beni con gli stessi acquistati oltre agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato.

Tra i diritti riconosciuti dal legislatore del 2016 non rientra pertanto né il diritto al mantenimento, né il diritto di partecipare alle scelte dell’impresa, né il diritto di prelazione in caso di trasferimento dell’azienda o divisione ereditaria.

Tale norma, criticata da una parte della dottrina per lo svilimento della posizione del convivente che verrebbe tutelato in misura minore rispetto ad un parente entro il terzo grado o a un affine entro il secondo, è sintomatica di una scelta del legislatore di differenziazione delle fattispecie, che precluderà probabilmente ogni possibile interpretazione estensiva.

La posizione dell’INPS

Con la Circolare n. 66 del 31 marzo 2017, la Direzione Centrale Entrate e Recupero Crediti dell’INPS ha fornito i primi chiarimenti in ordine agli obblighi previdenziali posti a carico degli esercenti attività di impresa in caso di partecipazione nelle ipotesi di cui agli artt. 230 bis e 230 ter c.c.

Con riguardo alla posizione dell’unito civilmente, la Circolare, richiamando il disposto dell’art. 1 comma 20 della L 76/2016, che dispone l’applicazione a ciascuna parte dell’unione civile di tutte le disposizioni relative al matrimonio o contenenti la parola “coniuge” o equivalenti, estende le tutele previdenziali in vigore per gli esercenti attività autonoma anche al coadiuvante unito al titolare da un rapporto di unione civile. Tale rapporto dovrà essere registrato ai sensi di legge e comprovato da una dichiarazione sostitutiva della dichiarazione di cui all’art. 1, comma 9 della legge n. 76/2016 e all’art. 7 del DPCM n. 144/2016.

Ciò in quanto, nell’ambito della gestione previdenziale degli artigiani, l’art. 2, comma 2, n. 1) della legge n. 463/1959 e s.m.i., indica “il coniuge” fra i “familiari coadiuvanti” a cui estende l’assicurazione previdenziale per gli artigiani; l’art. 2 comma 1 della legge n. 613/1966 e s.m.i., annovera tra i soggetti obbligati all’iscrizione alla gestione degli esercenti attività commerciali “il coniuge” fra i “familiari coadiutori.

Con particolare riferimento al campo di applicazione dell’impresa familiare, la Circolare precisa che il soggetto unito civilmente al titolare dell’impresa familiare deve essere equiparato al coniuge, con tutti i conseguenti diritti ed obblighi di natura fiscale e previdenziale.

Passando alle convivenze di fatto, la Circolare prende atto che la nuova normativa non estende al convivente gli stessi diritti/obblighi di copertura previdenziale previsti per il familiare coadiutore.

“Pertanto, il convivente di fatto, non avendo lo status di parente o affine entro il terzo grado rispetto al titolare d’impresa, non è contemplato dalle leggi istitutive delle gestioni autonome quale prestatore di lavoro soggetto ad obbligo assicurativo in qualità di collaboratore familiare.

Le sue prestazioni saranno quindi valutabili, in base alle disposizioni vigenti ed alle elaborazioni giurisprudenziali, al fine di individuare la tipologia di attività lavorativa che si adatti al caso concreto.”

Con particolare riferimento al disposto di cui all’art. 230 ter c.c., la Circolare conclude che l’eventuale attribuzione di utili d’impresa al convivente di fatto, da parte del titolare, non comporta l’insorgere di alcun obbligo contributivo del convivente alle gestioni autonome, mancando i necessari requisiti soggettivi, dati dal legame di parentela o affinità rispetto al titolare; pertanto l’intero reddito dell’impresa dovrà essere assoggettato all’eventuale Inps artigiani o commercianti in capo solo al titolare dell’impresa.

 

La posizione dell’Agenzia delle Entrate

Con la risoluzione n. 134/E del 26 ottobre 2017, la Direzione Centrale Normativa dell’Agenzia delle Entrate, su interpello di un imprenditore individuale che nel novembre del 2016 aveva stipulato un atto modificativo di impresa familiare, inserendo nella stessa la convivente di fatto, come da dichiarazione anagrafica a supporto, esprime la posizione dell’Agenzia in ordine alla possibilità di imputazione di una quota di utili al collaboratore convivente.

L’Agenzia delle Entrate, dopo aver ricordato che al soggetto unito civilmente è applicabile la disciplina dell’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c., e che la tutela apprestata dal legislatore per il convivente di fatto con l’art. 230 ter c.c. è differente, essendo limitata al solo diritto di partecipazione agli utili, ai beni acquistati con essi ed agli incrementi dell’azienda, richiama il disposto dell’art. 5 comma 4 del TUIR relativo al regime tributario dell’impresa familiare.

Tale norma, dettata con riferimento all’impresa familiare ex art. 230 bis, prevede che i redditi della stessa siano imputati, limitatamente al 49 per cento dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili.

La norma prosegue indicando le condizioni applicabilità di cui alle lettere a), b) e c) qui di seguito riportate:

“a) che i familiari partecipanti all’impresa risultino nominativamente, con l’indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l’imprenditore, da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all’inizio del periodo d’imposta, recante la sottoscrizione dell’imprenditore e dei familiari partecipanti;

  1. b) che la dichiarazione dei redditi dell’imprenditore rechi l’indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l’attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa in modo continuativo e prevalente, nel periodo d’imposta;
  2. c) che ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell’impresa in modo continuativo e prevalente.”

Da ultimo, il comma 5 di tale norma precisa che per familiari debbano intendersi, ai fini delle imposte sui redditi, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado dell’imprenditore.

Prendendo posizione a favore dell’estensione dell’imputazione del reddito di impresa anche al collaboratore convivente, l’Agenzia delle Entrate ritiene che il riferimento alla “partecipazione agli utili dell’impresa familiare” spettanti al convivente, di cui all’art. 230-ter, consente di applicare anche a questa fattispecie i principi dell’articolo 5 del TUIR.

Conclude quindi affermando che il reddito spettante al convivente di fatto, derivante dalla partecipazione agli utili dell’impresa del convivente, possa essere imputato in proporzione alla sua quota di partecipazione.

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Impresa familiare con partecipazione del convivente e dell’unito civilmente ultima modifica: 2018-03-29T15:10:36+02:00 da Clara Trimarchi
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