Ileana Maestroni
Il tema del possesso dei beni ereditari e dei suoi effetti ai fini dell’acquisto dell’eredità, così come delineato nell’art. 485 c.c., sembrava essere di quelli che, dopo essere stati ampiamente e financo esaustivamente trattati dalla “patristica” dei nostri giuristi, non fossero suscettibili di grandi rivoluzioni interpretative, se non per aspetti marginali o fattuali.
Sorprendentemente, invece, la giurisprudenza sembra avere rimesso in discussione proprio le certezze acquisite in occasione di decisioni che, se pure non costituiscono un vero e proprio orientamento, destano peraltro grave preoccupazione.
Mi riferisco, in particolare, alla sentenza della Corte di Cassazione n. 4845 del 29 marzo 2003, in cui, con motivazione quanto meno succinta, fondata su un’interpretazione strettamente letterale della norma, si enuncia il principio, per dire la verità mai prima adombrato e nella stessa giurisprudenza e nella dottrina più o meno recente, secondo cui “l’indicata previsione di accettazione dell’eredità ex lege” contenuta nella norma costituirebbe “fattispecie destinata ad operare non solo nel caso in cui l’erede voglia procedere all’accettazione con beneficio di inventario, ma anche quando lo stesso intenda rinunciare puramente e semplicemente”, in quanto l’accettazione dell’eredità che la legge impone al chiamato nel possesso dei beni ereditari, il quale non provveda a redigere l’inventario nel termine dell’art. 485 c.c., costituisce previsione di generale applicabilità in caso di delazione ereditaria ed essa trova la sua ratio nell’ esigenza di tutela dei terzi, sia per evitare ad essi il pregiudizio di sottrazioni ed occultamenti dei beni ereditari da parte del chiamato, sia per realizzare la certezza della situazione giuridica successoria, evitando che gli stessi possano ritenere, nel vedere il chiamato in possesso di un certo tempo di beni dell’eredità, che questa sia stata accettata puramente e semplicemente.
Si è ritenuto, a mio parere del tutto ingiustamente, che la sentenza citata avesse un precedente in un’altra sentenza della stessa Corte, la n. 7076 del 22 giugno 1995 che si era pronunciata in relazione al medesimo art. 485 c.c., ma in una fattispecie a ben vedere del tutto diversa e con motivazione solo apparentemente conforme. Infatti, mentre nella più recente sentenza il principio surriportato veniva espresso in relazione ad un chiamato possessore dei beni e che si era affrettato a rinunciare all’eredità delata addirittura il giorno successivo all’apertura della successione, nel caso di specie – chiaramente del tutto diverso – la Cassazione si pronuncia a proposito di un chiamato possessore che ha rinunciato tre anni e più dopo la stessa data.
A tale proposito, con motivazione, ineccepibile dal punto di vista sia logico che giuridico, la Corte afferma che “le norme che disciplinano la rinuncia all’eredità … debbono essere coordinate con quella dell’art. 485 c.c., secondo cui il chiamato che si trovi nel possesso … dei beni ereditari, ha l’onere di fare l’inventario e la mancanza dell’inventario, in termini prescritti dalla legge, comporta che il chiamato vada considerato erede puro e semplice e che lo stesso perda non solo la facoltà di accettare l’eredità con beneficio di inventario, ma anche quella di rinunciare alla stessa“.
La motivazione esposta dal giudice ricostruisce, in questo caso correttamente, l’inammissibilità di un’ efficace rinuncia all’eredità, laddove l’acquisto jure successionis si sia già definitivamente realizzato, secondo la ricostruzione sistematica propria del nostro ordinamento, fondato sul tradizionale principio “semel heres, semper heres“.
Del tutto differente, invece, il caso deciso dalla Cassazione nel 2003, dove l’acquisto ereditario non si era mai verificato perché il chiamato, pur nel possesso dei beni ereditari, aveva rinunciato all’eredità prima del decorso del termine di tre mesi fissato dalla norma.
Ignorando questa fondamentale differenza, la più recente decisione porta il ragionamento seguito (correttamente) dal suo precedente alle estreme conseguenze, affermando non solo e non tanto che chi ha già acquistato ex lege l’eredità trasmessagli per effetto della sequenza contenuta nell’art. 485 c.c., perde il diritto di rinunciare all’eredità, ma stabilendo addirittura che tale diritto venga meno anche per il chiamato possessore, che pur non avendo ancora acquistato l’eredità, intenda rinunciarvi nel termine di tre mesi fissato dalla norma, senza avvedersi che in tal modo, si realizza un’inversione logica suscettibile di compromettere la fondatezza giuridica del ragionamento.
Infatti, proprio la necessità di coordinamento tra le norme in materia di rinuncia (artt. 519 ss. c.c.) e l’art. 485 c.c. invocata dalla sentenza meno recente, impongono una diversa soluzione, pena un’ inaccettabile e pericolosa violazione di principi di ordine sistematico. L’art. 485 c.c., infatti, com’è noto e – almeno fino al 2003 – pacificamente riconosciuto, costituisce (insieme all’art 527 c.c.), l’unico esempio di acquisto de jure dell’eredità e l’unica eccezione al principio fondante l’intero nostro diritto successorio, per cui l’eredità si acquista con l’accettazione; altri sistemi giuridici hanno fatto una scelta differente, ma il nostro legislatore ha stabilito, sulla base di una plurisecolare tradizione, che l’eredità si acquista con l’accettazione (art. 459 c.c.), espressa o tacita (art. 474 c.c.), pura e semplice o con beneficio d’inventario (art. 470 c.c.); le ipotesi di acquisto automatico della qualità di erede sono quindi del tutto speciali, per non dire eccezionali, e – come tali – insuscettibili non solo di un’applicazione analogica, ma anche di una lettura estensiva.
Sotto questo profilo, è evidente che l’art. 485 c.c. individua quattro elementi costitutivi perché si possa realizzare un acquisto automatico dell’eredità:
i) ci deve essere un chiamato all’eredità;
ii) il chiamato deve essere nel possesso dei beni ereditari;
iii) il chiamato possessore deve non aver redatto un inventario;
iv) devono essere decorsi tre mesi dall’apertura della successione o dalla conoscenza dell’apertura della successione.
La mancanza anche di uno solo di questi elementi, impedisce l’acquisto ereditario automatico. E’ ciò che accade nel caso in cui il chiamato rinunci all’eredità prima del decorso dei tre mesi, perché egli perde la qualità di chiamato, o più precisamente, per effetto del disposto dell’art. 521 c.c., si considera come se non fosse mai stato chiamato a quell’eredità, in modo tale per cui il possesso dei beni ereditari che egli abbia eventualmente avuto prima di quel momento diventa irrilevante ai fini dell’acquisto stesso.
Analogamente, anche se con minore enfasi, l’art. 461 c.c. stabilisce che se il chiamato rinuncia all’eredità, le spese che egli abbia sostenuto per il compimento degli atti conservativi e l’eventuale esperimento delle azioni possessorie, sono a carico dell’asse ereditario, intendendo con ciò che il rinunciante diventa completamente estraneo rispetto all’eredità che ha rifiutato.
Ma l’interpretazione seguita dalla Cassazione risulta contraddetta anche da altri importanti indici normativi.
Se consideriamo, ad esempio, l’art. 527 c.c., vale a dire l’unica altra ipotesi riconosciuta dal nostro ordinamento di acquisto automatico dell’eredità, vedremo che per questa fattispecie, il legislatore si è preoccupato di precisare che la sottrazione o l’occultamento dei beni ereditari comporta la decadenza del chiamato della facoltà di rinunciare all’eredità e l’assegnazione della qualità di erede “nonostante la sua rinuncia”. La lettera della norma è chiara; l’acquisto si produce automaticamente e malgrado la rinuncia. Ben diverso, invece, il tenore letterale dell’art. 485 c.c. che si limita a stabilire che, effettuato l’inventario, il chiamato ha ancora un breve lasso di tempo per deliberare se accettare o rinunciare, volendo con ciò, da una parte, riconoscere la sua facoltà di interrompere la conclusione del procedimento che condurrebbe all’acquisto ereditario, e dall’altra, stabilire un termine perché il procedimento stesso non si protragga per un tempo ingiustificatamente lungo.
La diversa formulazione delle due norme dunque non solo ci impone di confrontarci con la tradizionale regola ermeneutica “ubi lex voluit, dixit”, ma evidenzia che, mentre per l’art. 527 c.c. prevale un intento sanzionatorio nei confronti del chiamato che illegittimamente sottragga o occulti beni ereditari evitandosi tuttavia le possibili conseguenze dannose di un’eredità passiva, nel caso dell’art. 485 c.c., invece, il legislatore ha voluto semplicemente soddisfare un’esigenza di celerità nella definizione dei rapporti pendenti per effetto di una successione, senza per ciò solo pregiudicare il diritto del chiamato a rinunciare all’eredità all’ esito del procedimento o, se lo ritiene, anche nel corso del procedimento, vale a dire prima dello scadere del termine di tre mesi.
D’altro canto, la forzatura all’intero sistema che la decisione in commento provoca, non sembra poter essere sostenuta dalla concisa e insoddisfacente motivazione proposta.
Non è sufficiente invocare una generica “esigenza di tutela dei terzi” fondata sul “rischio di sottrazioni ed occultamenti dei beni ereditari da parte del chiamato”, sia perché la redazione di un inventario non impedisce di certo il verificarsi di una tale situazione, sia perché questa ipotesi è espressamente disciplinata, come abbiamo visto, dall’ art. 527 c.c., che commina l’assunzione forzata della qualità di erede anche a colui che abbia rinunciato all’eredità.
Nemmeno appare determinante la pretesa intenzione di “realizzare la certezza della situazione giuridica successoria”, che nel caso di una rinuncia tempestiva viene soddisfatta con la pubblicità dell’atto nel competente Registro delle Successioni (art. 519, 1 comma c.c.), pubblicità che – altrimenti – non svolgerebbe alcuna funzione e non avrebbe alcun senso.
D’altro canto, non si comprende perché la Corte ritenga di dover ad ogni costo tutelare la posizione dei terzi attraverso una lettura così draconiana e forzata dell’art. 485 c.c., quando l’ordinamento appresta a quegli stessi terzi una pluralità di strumenti di difesa, in relazione agli interessi di ciascuno: dalla facoltà di chiedere l’apposizione dei sigilli riconosciuta, fra gli altri, ai creditori e a tutti coloro i quali possano avere interesse alla successione dell’art. 753 c.p.c.; a quella di ottenere la fissazione di un termine entro il quale il chiamato debba dichiarare se accetta o rinuncia all’eredità, attribuita dall’art. 481 c.c. a chiunque vi abbia interesse; fino alla possibilità per i creditori di chiedere la separazione dei beni del defunto ai sensi degli artt. 512 e ss. c.c., mediante iscrizione presso la competente Conservatoria dei Registri Immobiliari per gli immobili mediante ricorso all’Autorità Giudiziaria, che in questo dà anche le disposizioni necessarie per la conservazione, per i beni mobili.
Per finire, non si può tacere l’impatto sociale ed economico di un principio quale quello espresso dalla Cassazione, che finisce per imporre ai chiamati (anche di grado ulteriore, Cass. n. 5152/2012) che non vogliono essere coinvolti nella vicenda successoria, per il solo fatto di essersi trovati “a qualsiasi titolo” (anche per semplice detenzione, Cass. 4835/1980) in “una relazione di fatto” (Cass. n. 1301/1977) ancge con un colo bene ereditario (Cass. n. 2324/1967; Cass. 3175/1979; Cass. n. 3042/1983), magari di valore modesto (addirittura, il letto ed alcuni effetti personali, Cass. 4707/1994), per brevissimo tempo (ad exitum vitae?), senza facoltà di poter abbandonare il possesso eliminando i presupposti dell’acquisto forzoso (Cass. n. 1317/1984), di sopportare l’onere, non solo economico, di un inventario per la tutela di quei terzi, che pur potendo attivarsi in ben altro modo, avvalendosi delle facoltà loro attribuite dall’ordinamento, si limitano ad attendere il decorso dei tre mesi per approfittare, non dei beni del defunto (di quei beni, vale a dire, su cui hanno fatto affidamento quando hanno concesso credito), ma dei beni del chiamato che sulla base di un’interpretazione risalente, pacifica e fondata (e quindi non solo, come si è detto, di una “prassi”), ha ritenuto con giusto motivo sufficiente per sé e per gli altri rinunciare semplicemente e puramente all’eredità.
Non è anche questo un affidamento meritevole? Non è anche questa una certezza giuridica da tutelare?

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