Il Certificato Successorio Europeo (CSE): uno strumento nuovo per tutti i cittadini italiani o una discriminazione al rovescio?

a cura di Anselmo Barone e Giovanni Liotta

Il Regolamento (UE) n. 650/2012 del Parlamento e del Consiglio del 4 luglio 2012 in materia di successioni ereditarie che, tra l’altro, istituisce il Certificato Successorio Europeo e il più recente Regolamento (UE) n. 1329/2014 di esecuzione della Commissione, che istituisce i moduli al primo connessi, tra i quali la domanda e il modello del detto Certificato Successorio Europeo, sono da molti mesi al centro dell’attenzione e dello studio anche del notariato.

Una semplice ricerca tramite Google consente, infatti, di individuare molteplici contributi sotto forma di pubblicazioni e seminari diretti a valutare l’impatto per i cittadini e i profili problematici di quella che si può definire una vera e propria rivoluzione (positiva) nel diritto europeo e nelle successioni internazionali. 

L’interesse del notariato deriva dalla tradizionale competenza dei notai nella materia mentre l’autorevolezza del relativo lavoro di studio si comprende ricordando come l’attuale testo del Regolamento n. 650/2012 derivi, in buona parte, da una proposta di Regolamento elaborata da un gruppo di studio costituito dal Consiglio Nazionale del Notariato nell’ambito della propria Commissione Affari Europei e Internazionali in occasione delle risposte al Libro Verde che ha rappresentato il punto di partenza delle istituzioni comunitarie.

Il Regolamento entra in vigore il 17 agosto 2015 ma, in forza delle disposizioni transitorie di cui al suo articolo 83, sin d’ora è possibile che taluni suoi principi inizino a trovare applicazione e che i professionisti coinvolti ne diano opportuna informazione e consulenza ai propri clienti nell’ambito di una sistemazione del proprio patrimonio con effetti post mortem.

In queste brevi note, riprendendo in parte riflessioni già svolte in un seminario del progetto Formanote svoltosi a Treviso nel 2012, si cercherà di evidenziare caratteri e utilità dell’istituzione del Certificato Successorio Europeo per verificare se il suo rilascio e/o la sua esistenza riguardino soltanto una successione con profili di internazionalità o, per ipotesi, anche una successione ereditaria meramente nazionale. Ove, infatti, fosse possibile rilasciare un CSE anche per la successione di un cittadino italiano la cui vicenda ereditaria si esaurisca nei confini nazionali, si semplificherebbero non pochi meccanismi burocratici e si conferirebbe maggior certezza e stabilità a molti rapporti giuridici.

Non tanto, quindi, una mera nuova competenza per il notaio quanto uno strumento agile, utile e semplificato (un’opportunità quindi) per i cittadini, costretti ad affrontare una complessa vicenda personale e patrimoniale delicata qual è la successione a causa di morte.

La disciplina del CSE si trova negli articoli 62 e seguenti del Regolamento n. 650/2012, mentre negli allegati 4 e 5 del Regolamento n. 1329/2014 si hanno gli schemi della domanda di rilascio e del modello di CSE.

Sul piano interno, con la legge n. 161/2014 e in adempimento di una previsione della normativa comunitaria, si è individuata nel notaio l’autorità competente al rilascio di un CSE.

Cerchiamo di chiarire cosa sia e cosa non sia il Certificato Successorio Europeo:

a) è un documento rilasciato in base a una procedura, a regole di competenza e da parte di autorità normativamente fissate nel primo dei detti strumenti comunitari;

b) è un documento uniforme con valore di prova che può esser utilizzato da eredi, legatari, esecutori testamentari e/o amministratori di beni ereditari per provare più agevolmente le loro qualità ed esercitare diritti e/o poteri in uno Stato membro diverso da quello del rilascio o l’attribuzione di uno o più beni determinati che fanno parte dell’eredità a eredi o legatari;

c) è un documento che beneficia di una circolazione diretta in tutti gli Stati membri senza che ci sia necessità di ricorrere ad alcun procedimento;

d) si presume che esso “dimostri con esattezza gli elementi accertati in base alla legge applicabile alla successione o a ogni altra legge applicabile a elementi specifici” e, quindi, che la persona indicata come erede, legatario, esecutore o amministratore abbia tale qualità;

e) è uno strumento che agevola i traffici giudici proteggendo i terzi che abbiano rapporti che persone indicate nelle dette qualità nel CSE procedendo a pagamenti e/o consegna di beni e/o acquisti di beni con essi, con le eccezioni di cui all’art. 69, paragrafi 3 e 4;

f) è titolo idoneo per l’iscrizione di beni ereditari nel pertinente registro di uno Stato membro, fatto salvo l’articolo 1, paragrafo 2, lettere k e l), che ne attenuano la portata per come subito appresso;

g) non è un documento obbligatorio, non è un titolo esecutivo in una successione internazionale né rappresenta la soluzione definitiva (dei profili e problemi) di una successione con implicazioni transfrontaliere;

h) esso non sostituisce i documenti nazionali utilizzati per scopi analoghi negli Stati membri ma, una volta rilasciato, gli effetti dell’art. 69 del Regolamento n. 650/2012 si producono anche nello Stato membro le cui autorità lo hanno emesso, secondo quanto precisato nel paragrafo 2 dell’art. 62. E anche da tali formulazioni possono derivare elementi a supporto della forza espansiva interna del CSE su cui infra si dirà.

Resta il dubbio se esso sia anche un atto autentico (e, in Italia, atto pubblico notarile) o meno.

Per non pochi primi commentatori, il CSE non è un acte autentique, non è una decisione né una transazione giudiziale per come definite nell’articolo 3, paragrafo 1, lettere i), g) e h) del Regolamento n. 650/2012 e alla luce degli articoli 59, 60 e 61 del medesimo che di tali figure, separatamente dal CSE si occupano per la circolazione. E tali conclusioni si potrebbero riflettere o, comunque, andrebbero tenute presenti nella ricostruzione ‘interna’ del CSE in particolare modo ove si ammetta una generale applicabilità anche al di fuori delle successioni internazionali.

Discusso, inoltre, è quali siano i rapporti tra CSE e i documenti nazionali già previsti in taluni Stati membri visto che, come sopra detto, esso non li sostituisce (articolo 62, paragrafo 3) e si potrebbe porre, come in concreto si porrà, un problema di concorso con essi e/o di conflitto di contenuti.

Da questa breve indicazione dei caratteri del CSE si ricava in modo sufficientemente agevole come esso faciliterà tutti quei soggetti sopra detti (eredi, legatari, amministratori ed esecutori) che disporranno finalmente di uno strumento unitario, uniforme e semplificato per operare senza complicazioni in Paesi diversi da quello della lex successionis.

Si pensi alla riscossione di un credito presso una banca, alla consegna di un bene, all’accesso a informazioni sul patrimonio del defunto presso uffici ed enti pubblici o privati, all’aggiornamento di conti o banche dati, alla protezione e conservazione di beni o diritti ereditari. E il valore aggiunto del CSE si manifesta con maggior forza in Italia ove la qualità di erede in particolare è, nella maggioranza dei casi, frutto non di un atto di accettazione espressa di eredità ma delle regole sull’accettazione presunta o tacita. Sicché non sempre è agevole dimostrare tali qualità a terzi, essendo insufficienti o incompleti gli strumenti dell’atto notorio e della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà.

Ciò porta con sé una domanda apparentemente semplice: il CSE – che anche i cittadini italiani, per una successione ereditaria di un cittadino italiano soggetta alla legge italiana, potranno utilizzare ai sensi del Regolamento ove nella successione vi siano profili di internazionalità – potrà dagli stessi cittadini essere richiesto al notaio italiano, anche alla luce dei citati articoli 62, paragrafo 3 e 69, ove la successione sia ‘meramente’ interna?

La risposta parrebbe in principio negativa.

I regolamenti, infatti, al pari di tutto il diritto dell’Unione europea, non si applicano alle situazioni giuridiche puramente interne, sorte ed esaurite nell’ambito di uno Stato membro.

Non è men vero, tuttavia, che l’applicazione di una norma comunitaria da parte di uno Stato può porre i cittadini di questo in una posizione di svantaggio rispetto a quella dei cittadini degli altri Stati membri, dando cosò vita ad una c.d. “discriminazione a rovescio”.

Con specifico riguardo al tema in esame, per esempio, la possibilità di avvalersi del certificato successorio solo nell’ambito delle successioni transnazionali potrebbe finire per determinare una disparità di trattamento rispetto alle successioni “interne”, in danno degli eredi impossibilitati a conseguire il rilascio di analogo certificato e gravati di una serie di adempimenti (e di costi) per poter esercitare i propri diritti, ereditari appunto.

Ebbene, la Corte di Giustizia ha più volte ribadito che tali situazioni di disparità, indirettamente originate dal diritto comunitario, sono irrilevanti per l’ordinamento dell’Unione europea e possono essere valutate esclusivamente dal giudice nazionale alla luce degli strumenti offerti dal proprio ordinamento (cosò, fra le altre, Corte Giust. 16 giugno 1994, causa C-132/93, Steen II).

Nel nostro Paese, la questione è stata affrontata prima sul piano giurisprudenziale e poi dal punto di vista legislativo.

La Corte Costituzionale, nella sent. n. 443/1997, ha dichiarato le discriminazioni a rovescio, derivanti dalla coesistenza di norme interne più restrittive delle posizioni soggettive individuali con norme derivanti dall’ordinamento comunitario, incompatibili con l’art. 3 Cost., censurando dunque le norme italiane.

Per la Corte «all’impatto con il nostro sistema giuridico, quello spazio di sovranità che il diritto comunitario lascia libero allo Stato italiano non può risolversi in pura autodeterminazione statale o in mera libertà del legislatore nazionale, ma è destinato ad essere riempito dai principi costituzionali e, nella materia di cui si tratta, ad essere occupato dal congiunto operare del principio di eguaglianza e della libertà di iniziativa economica, tutelati dagli art. 3 e 41 Cost.».

Dopo la presa di posizione del Giudice costituzionale (più di recente ribadita con la sent. n. 341/07), ad affrontare il problema delle discriminazioni a rovescio è intervenuto il legislatore, che, progressivamente, ha introdotto il principio della parità di trattamento dei cittadini italiani rispetto ai cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea residenti o stabiliti nel territorio nazionale. Invero, dapprima l’art. 2, comma 1, lett. h, della legge comunitaria per il 2004 (legge 18 aprile 2005, n. 62) ha previsto che i decreti legislativi di attuazione delle direttive comunitarie «assicurano che sia garantita una effettiva parità di trattamento dei cittadini italiani rispetto a quelli degli altri Stati membri dell’Unione europea, facendo in modo di assicurare il massimo livello di armonizzazione possibile tra le legislazioni interne dei vari Stati membri ed evitando l’insorgere di situazioni discriminatorie a danno dei cittadini italiani nel momento in cui gli stessi sono tenuti a rispettare, con particolare riferimento ai requisiti richiesti per l’esercizio di attività commerciali e professionali, una disciplina più restrittiva di quella applicata ai cittadini degli altri Stati membri».

Successivamente, l’art. 6, lett. d, legge 7 luglio 2009, n. 88 (legge comunitaria 2008), ha inserito nella legge 4 febbraio 2005, n. 11 (“Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari”), l’art. 14-bis a tenor del quale: «1. Le norme italiane di recepimento e di attuazione di norme e principi della Comunità europea e dell’Unione europea assicurano la parità di trattamento dei cittadini italiani rispetto ai cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea residenti o stabiliti nel territorio nazionale e non possono in ogni caso comportare un trattamento sfavorevole dei cittadini italiani. 2. Nei confronti dei cittadini italiani non trovano applicazione norme dell’ordinamento giuridico italiano o prassi interne che producano effetti discriminatori rispetto alla condizione e al trattamento dei cittadini comunitari residenti o stabiliti nel territorio nazionale».

Ed identici principi sono stati da ultimo riaffermati dagli artt. 32, comma 1, lett. i e 53 della Legge 24 dicembre 2012 (“Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea”).

In un quadro normativo cosò novellato, non appare agevole circoscrivere la portata precettiva del regolamento, in parte qua, alle sole successioni transfrontaliere, attesa la forza espansiva della previsione del certificato successorio europeo e la prospettabilità, anche ed innanzitutto alla stregua dei ricordati principi “antidiscriminatori” (comunque operanti, per quanto suesposto, quantomeno in relazione alla posizione di cittadini UE residenti o stabiliti in Italia), della estensione del suo ambito di applicazione anche alle successioni meramente “interne”.

Né può escludersi che la introduzione dell’anzidetto certificato induca, prima o poi, anche il legislatore statale ad una riflessione sulla opportunità di adottare disposizioni di adeguamento del quadro normativo interno alle previsioni del regolamento, al fine di evitare l’insorgere di situazioni di disparità di trattamento che, alla luce delle considerazioni dianzi svolte, potrebbero risultare non compatibili con il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione.

Da ultimo, poi, non può sottacersi che potrebbero in astratto verificarsi anche casi pratici nei quali ex ante, apparentemente o formalmente, ricorrevano i caratteri di una successione internazionale e poi ex post (e/o anche ex tunc) essi siano venuti meno o si sia accertato che la successione era, in realtà, interna. Si pensi al caso di un cittadino italiano residente in Italia con beni in Italia con un credito pecuniario ‘estero’ verso una banca o, in genere, un creditore estero per un contratto formatosi in altro Stato soggetto a legge straniera e alla possibilità che, dopo il rilascio del CSE, tale credito sia venuto meno anche retroattivamente e/o si scopra, in sede di riscossione che non sussisteva perché il titolo era nullo. Ritenere de iure condito vietato il rilascio di un CSE al di fuori dei casi testualmente previsti potrebbe determinare effetti aberranti posto che non si lede alcun interesse meritevole di tutela né esistendo norma inderogabile che lo escluda. Dovrebbe derivarne, almeno in tale prospettiva, l’assenza comunque di una responsabilità disciplinare per il notaio in particolare nell’ottica dell’art. 28 della legge n. 89/1913.

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– FERRARI, Appunti sul certificato successorio europeo, in questa rivisita, 2012, 6, p. 15;

– FRANZINA PIETRO – LEANDRO ANTONIO (a cura di), Il diritto internazionale privato europeo delle successioni mortis causa (Collana: Consiglio Nazionale Del Notariato Collana

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– PETRELLI, Certificato successorio europeo – Regolamento europeo delle successioni, in Novità normative II semestre 2014, www.gaetanopetrelli.it

– www.succesions-europe-eu

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Il Certificato Successorio Europeo (CSE): uno strumento nuovo per tutti i cittadini italiani o una discriminazione al rovescio? ultima modifica: 2015-01-26T08:04:55+01:00 da Redazione Federnotizie
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