La Suprema Corte, con Sentenza n. 9178/2018, ha avuto modo di pronunciarsi in ordine al requisito della coabitazione ai fini della configurabilità del rapporto di convivenza di fatto, come disciplinato dalla legge 20 maggio 2016 n. 76.
Il caso sottoposto all’attenzione del giudice riguardava la domanda di risarcimento del danno, avanzata dalla convivente di fatto, a seguito di un incidente sul lavoro che causava il decesso del convivente. La domanda di risarcimento veniva proposta contro la società proprietaria dell’immobile, oggetto di ristrutturazione, presso il quale prestava la propria attività lavorativa il soggetto ivi deceduto.
La pretesa dell’attrice veniva respinta sia in primo grado che in appello.
Il Giudice di primo grado aveva ritenuto che mancasse la prova del rapporto di convivenza perchè l’attrice risiedeva in un paese diverso da quello della vittima.
Il Giudice d’appello aveva riconosciuto l’esistenza di un legame affettivo e quindi di una relazione di coppia; tuttavia, il rapporto non sarebbe stato caratterizzato “da quella stabilità e continuità che legittimano il convivente di fatto ad agire per i danni da perdita del rapporto affettivo ed eventualmente per i danni patrimoniali conseguenti alla morte del convivente”.
A seguito dei giudizi di primo e secondo grado, l’attrice presentava ricorso per Cassazione, impugnando la sentenza in quanto lamentava un errore di diritto.
Interrogata sul punto, la Suprema Corte, con sentenza n.9178/2018, accoglieva le argomentazioni presentate dall’attrice. I giudici della Suprema Corte si sono soffermati sulla corretta interpretazione della nozione di coabitazione, ai fini della configurabilità del rapporto di convivenza di fatto.
La Suprema Corte rilevava come il requisito della coabitazione assuma un rilievo di carattere secondario, in quanto può accadere che la scelta del luogo di abituale dimora sia necessitata da circostanze economiche o dalla necessità di accudire i familiari. Nella sentenza si osservava inoltre che talvolta l’attuale mercato del lavoro non permette di garantire una coincidenza tra il luogo in cui avviene lo svolgimento del rapporto lavorativo e quello in cui risiede la dimora familiare e che i cambiamenti sociali hanno portato all’instaurazione di rapporti affettivi stabili anche a distanza. Da ciò discende un necessario ripensamento del concetto di convivenza, in mancanza della quale esistono circostanze in cui può comunque ravvisarsi l’esistenza di una famiglia di fatto, intesa come comunanza di vita e di affetti.
La Cassazione accoglieva pertanto il ricorso dell’attrice, attribuendo preminente rilevanza all’esistenza di un legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale due persone abbiano spontaneamente e volontariamente assunto reciproci impegni di assistenza morale e materiale.
La prova del rapporto di convivenza dovrà essere ricavata dall’esame complessivo degli elementi che concorrono alla definizione di un rapporto di convivenza, quali, per esempio, l’esistenza di un conto corrente comune, la compartecipazione alle spese familiari, la reciproca assistenza morale e materiale, la coabitazione. Trattasi di elementi la cui valutazione deve essere effettuata complessivamente, non atomisticamente.
Per i suddetti motivi la Suprema Corte accoglieva la domanda dell’attrice, rimettendo la questione al giudice di merito.
Quanto statuito dalla Suprema Corte in tema di convivenza more uxorio costituisce un valido spunto di riflessione anche in tema di contratti di convivenza, ex lege n. 76/2016.
Alla luce delle considerazioni emerse nella sentenza in commento, il requisito della coabitazione deve essere ripensato, almeno sotto il profilo della sua essenzialità, ai fini della configurabilità del rapporto di convivenza.
A tal proposito si rende opportuno sottolineare, citando Gazzoni (Manuale di diritto privato, pag. 318, ed. 2017), che: «La convivenza dà vita ad una formazione sociale ai sensi dell’art. 2 Cost. […] Il presupposto è quindi il riconoscimento della formazione sociale al cui interno i rapporti si svolgono. È allora la famiglia ad essere di fatto e non già i conviventi».
L’art. 1 comma 37 L. n. 76/2016 prevede che “fermo restando la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36”, per accertare la stabile convivenza si faccia riferimento alla dichiarazione anagrafica. Il comma 36 dello stesso articolo definisce conviventi di fatto “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”. Quindi affinché si possa configurare un rapporto di convivenza di fatto, la stessa legge pone l’accento non sulla convivenza, ma sull’esistenza di un legame affettivo stabile, volto alla reciproca assistenza morale e materiale, che pare essere l’unico requisito essenziale perché si possa configurare una famiglia di fatto. L’esistenza del legame affettivo, come descritto dal comma 36, legittima i conviventi alla conclusione del relativo contratto di convivenza; infatti, in difetto dei requisiti ivi indicati, il contratto deve considerarsi nullo.
Come confermato dagli orientamenti della Suprema Corte, la coabitazione assume le vesti di un elemento indiziario attraverso il quale desumere l’esistenza di un rapporto di convivenza di fatto. Tuttavia, come ogni elemento indiziario, anche la coabitazione è un elemento privo di rilevanza se valutato atomisticamente rispetto al contesto e alle circostanze in cui si inserisce. Inoltre, al pari di ogni indizio, non può costituire una prova se non è corroborato da ulteriori indizi che muovono verso la stessa conclusione.
L’obbiettivo del legislatore è quello di individuare uno strumento, attraverso il quale disciplinare gli aspetti di natura patrimoniale e legittimare i conviventi di fatto all’esercizio di determinati poteri, che altrimenti non potrebbero esercitare (si pensi a quanto previsto dall’art. 1 n. 39, che riconosce al convivente il diritto di visitare, assistere, accedere alle informazioni, in caso di ricovero ospedaliero o malattia dell’altro convivente).
La coabitazione, come intesa dall’art.1 comma 37 della L. n.76/2016, costituisce uno strumento di natura processuale, la cui funzione è quella di agevolare la prova circa l’esistenza di un vincolo di natura affettiva che, avendo una portata evanescente, con la coabitazione viene ricondotto all’interno di un parametro oggettivamente riscontrabile. Per questo motivo la coabitazione non può rappresentare l’unico strumento di prova; viceversa, può essere addirittura irrilevante al fine di dimostrare l’esistenza del vincolo affettivo che unisce la coppia, come anche conferma la sentenza in commento.
A conferma di quanto qui affermato anche il successivo comma 53 dello stesso art.1 della legge n. 76/2016, nel dare indicazioni sul contenuto del contratto di convivenza, in merito alla indicazione della residenza in cui i conviventi intendono stabilire la propria dimora abituale, si esprime in termini di possibilità e non di obbligo.
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AUTORE

Notaio in Seregno e Milano. Dal 2007 al 2014 membro del Consiglio Notarile dei Distretti Riuniti di Milano Monza Lodi e Varese. Direttrice di FederNotizie dal 2004 al 2007 e in seguito redattore. Notaio Mediatore e dal 2010 Vicepresidente del CdA dell’organismo di mediazione ADR Notariato srl. Dal 2005 al 2011 docente alla Scuola del Notariato della Lombardia. Docente anche presso l’Università Bocconi di Milano, l’ODCEC e l’Università Cattolica. Ha curato un Codice del Notariato pubblicato dalla UTET e contribuito a numerose pubblicazioni in materia societaria, di mediazione e contratti di rete.