Clausola penale illegittimamente tassata: Agenzia delle Entrate condannata a rifondere le spese

Nello scorso mese di aprile, a commento di una decisione della Commissione Provinciale di Milano, avevamo pubblicato un articolo di Chiara Grazioli che faceva il punto sull’autonoma tassabilità della clausola penale e l’avevamo corredato con alcuni esempi di ricorso.

Uno di questi ricorsi è stato ritenuto meritevole di accoglimento dalla decisione della Commissione Tributaria di Pesaro che pubblichiamo.

Della decisione colpisce la condanna alle spese inflitta all’Agenzia delle Entrate di Pesaro, ma anche la elementare lezione di diritto privato che l’estensore ha ritenuto di dover impartire di fronte a un avviso di liquidazione totalmente privo di fondamento.

La lezione impartita a noi notai è invece diversa e più sottile.

Essere dalla parte dello Stato per una corretta esazione e un puntuale pagamento dei tributi, è essenziale connotato del Notariato, ma significa anche non lasciare il cliente/cittadino/contribuente in balia di pretese senza fondamento solo perché la pretesa è di importo modesto e “non vale la pena ricorrere”.


Con ricorso notificato all’Ufficio il 12 febbraio 2021 il notaio Caccavale Massimo ha impugnato l’avviso di liquidazione n. 20039019656 con cui l’Agenzia delle Entrate-Direzione provinciale di Pesaro e Urbino imponeva il pagamento dell’imposta di registro (in misura fissa: € 200,00) e di quella di bollo (€ 45,00). L’avviso deriva dall’atto di compravendita rogato dal precitato notaio il 13 novembre 2020, con cui la signora …… ha venduto ai signori ………… un bene immobile sito in Comune di ……… Nell’atto si stabiliva che la parte acquirente sarebbe stata immessa nella materiale disponibilità del bene, libero da persone e cose, entro e non oltre il 14 dicembre 2020. In atto le parti hanno stabilito che, nel caso di ritardo nella consegna del bene, la venditrice sarebbe stata obbligata a corrispondere agli acquirenti la somma di € 100,00 per ogni giorno di ritardo, salvo il risarcimento del maggior danno. Gli acquirenti hanno chiesto l’applicazione dei benefici ex art. 1 della Tariffa allegata al DPR n. 131/’86.

La motivazione dell’avviso di liquidazione qui impugnato recita testualmente: “RECUPERO IMPOSTA PRINCIPALE (ART. 42 DPR 131/86). LA CLASUOLA PENALE STABILITA ALL’ART. 5 DEL CONTRATTO, CONSISTENTE NELLA PATTUIZIONE DI PAGAMENTO DI UNA SOMMA DI EURO 100 GIORNALMENTE PER OGNI GIORNO DI RITARDO NELLA CONSEGNA DELL’IMMOBILE, CONCORDATA ENTRO IL 14/12/2020, RAPPRESENTA UNA ULTERIORE ED AUTONOMA DISPOSIZIONE RISPETTO ALLA COMPRAVENDITA DELL’IMMOBILE.
PERTANTO, AI SENSI DELL’ART. 21-1 COMMA DEL TUR 131/1986, VISTA ANCHE LA RISOLUZIONE 310388 IN DATA 18/06/1990 DEL MINISTERO DELLE FINANZE TASSE E IMPOSTE INDIRETTE SUGLI AFFARI, SI RECUPERA PER LA SUDDETTA CLASUOLA PENALE, SOGGETTA A CONDIZIONE SOSPENSIVA, UN’IMPOSTA FISSA DI REGISTRO, NELLA MISURA DI EURO 200,00 AI SENSI DELL’ART. 27 1 COMMA DEL SUDDETTO TUR 131/86.

L’imposta di bollo viene recuperata in quanto per la clausola penale non sarebbe vigente il principio di assorbimento.

L’istanza di annullamento in autotutela presentata dal contribuente il 16 dicembre 2020 è stata respinta con diniego del 28 dicembre 2020.

Con il ricorso in decisione il notaio contesta diffusamente l’impugnato avviso sotto più profili, qui sinteticamente indicati: 1) violazione dell’art. 11 dello Statuto del Contribuente; errata  applicazione della Risoluzione n. 310388/1990; errata interpretazione dell’art. 21 del DPR n. 131/86; errata interpretazione del principio di alternatività di cui all’art. 40 del DPR n.131/86; 2) violazione degli artt. 21, 1, 20 e 27 del DPR n. 131/86; 3) errata interpretazione del combinato disposto di cui agli artt. 21 e 41 del DPR n. 131/86; 4) errata applicazione dell’art. 1 della Tariffa. Conclude chiedendo l’annullamento dell’atto impugnato e la restituzione della somma di € 245,00 oltre ai diritti di notifica. Con vittoria delle spese di giudizio.

Resiste l’Ufficio, che ribadisce l’attribuzione di “autonomia negoziale” alla clausola penale contenuta nel contatto: essa “(…) per sua natura non deriva necessariamente dal medesimo contratto; una disposizione dal contenuto patrimoniale “aggiunta” per volontà delle parti che produce effetti giuridici propri rispetto al contratto e che costituisce, quindi, espressione di capacità contributiva (…)” (controricorso, pag. 2). Sotto altro profilo, l’Ufficio rileva che non ha fondato la propria pretesa sul documento di prassi indicato dal ricorrente, bensì sulla disciplina positiva ex art. 21 co. 1 DPR n. 131/86. Argomenta diffusamente sui motivi di ricorso del contribuente, evidenziando l’autonomia della pattuizione all’interno del contratto principale. Deduce giurisprudenza di Cassazione (n.      2036/1960) e di merito a sostegno delle proprie ragioni. Conclude chiedendo il rigetto del ricorso con condanna del contribuente al pagamento delle spese del grado e di quanto dovuto per il procedimento di mediazione (totale € 724,50).

MOTIVI DELLA DECISIONE

Osserva il Collegio che la resistenza dell’Ufficio nel caso che occupa appare al limite della temerarietà. Si pongono in discussione istituti basilari, ed anche elementari, addirittura del diritto privato. Poiché non è questa la sede per ripercorrere i detti istituti (autonomia privata, contratto, clausole vessatorie, elementi accidentali, accessorietà, etc., per le cui nozioni si rimanda alle numerose trattazioni manualistiche ad uso didattico), ci si limiterà ad esporre nel modo più sintetico possibile le ragioni della decisione.

Sotto un profilo puramente formale, desta sorpresa il fatto che la motivazione dell’A.F. pretenda di basarsi “anche” su una Risoluzione emanata più di trenta anni or sono (n. 310388 del 18/6/1990). Né, in contrario, vale la giustificazione richiamata nelle contro deduzioni dell’Ufficio (pag. 3) secondo cui la pretesa fiscale non sarebbe basata sul precitato documento interno della P.A. bensì sulla normativa vigente. E’ sufficiente visionare l’avviso di liquidazione per accertarsi dell’infondatezza di tale dichiarazione dell’Ufficio. Chè se poi fosse vero quanto opposto dalla difesa dell’A.F., ci sarebbe da chiedersi perché mai la citata risoluzione sia stata inserita nella motivazione dell’avviso.

Più e più volte questo Giudice ha avuto modo di esprimersi sul valore e sull’efficacia dei documenti di prassi interni alla p.A. (circolari, risoluzioni, risposte a quesiti, etc.), evidenziando il fatto che essi non costituiscono fonti del diritto, non hanno natura provvedimentale,  non   hanno efficacia   esterna all’Amministrazione e neanche – quantomeno in senso stretto – vincolano 1’organo/ufficio procedente.

Fatica di Sisifo, evidentemente.

Sull’inquadramento della clausola penale come dotata di “autonomia negoziale” rispetto al contratto cui accede, il Collegio ritiene utile partire da una definizione “in negativo” dell’istituto, descrivendo cosa essa clausola non é: a) non è un corrispettivo collegato alla cessione di beni о alla prestazione di servizi; b) non è espressione di capacità contributiva; c) non è neanche una clausola sospensiva dell’efficacia del contratto, atteso che restano intatti i reciproci obblighi derivanti dall’adempimento del vincolo contrattuale.

In positivo, per quanto possa apparire banale, sembra opportuno evidenziare il carattere manifestamente accessorio della clausola. E’ finanche eccessivo scomodare sul punto la Suprema Corte (sent. 18779/2005), citandone la massima: “Stante la natura accessoria della clausola penale rispetto al contratto che la prevede, l’obbligo che da essa deriva non può sussistere autonomamente rispetto all’obbligazione principale.” (ricorso, pag. 19). A riprova, dovrebbe bastare la seguente osservazione logica: se un contratto fosse inesistente/nullo per una qualunque ragione (perchè stipulato foci causa, о per incapacità di un contraente, о per inesistenza dell’oggetto, о per illiceità della causa e/o dei motivi, о per inosservanza della forma prescritta dalla legge sotto pena di nullità, etc.), nessuno potrebbe legittimamente pretendere l’esecuzione di una clausola penale in esso contratto prevista.

Et de hoc satis.

Per concludere, il ricorso è fondato e merita

accoglimento, con l’effetto (costitutivo) di annullare l’impugnato avviso di liquidazione, e con l’ulteriore effetto di condannare l’Ufficio al rimborso della somma complessiva di € 245,00. Le spese di giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M

La Commissione Tributaria Provinciale di Pesaro accoglie il ricorso e, per l’effetto, annulla l’avviso di liquidazione. Condanna l’Ufficio finanziario al rimborso della somma di €245,00 già versata dal ricorrente. Condanna inoltre la A.E. soccombente al pagamento delle spese di giudizio che qui vengono liquidate in € 725,00, oltre accessori di legge, se dovuti, a favore della parte ricorrente.

Così deciso il 23 settembre 2021 in Pesaro.

 

Clausola penale illegittimamente tassata: Agenzia delle Entrate condannata a rifondere le spese ultima modifica: 2021-12-24T08:30:14+01:00 da Redazione Federnotizie
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