Comincia oggi il primo, e speriamo ultimo, Congresso Nazionale del Notariato interamente telematico.
Difficile prevedere come sarà il dibattito, se la distanza favorirà o scoraggerà la discussione.
Da parte nostra nei mesi scorsi abbiamo toccato alcuni argomenti che speriamo saranno affrontati, diventando progetti del Notariato.
L’atto a distanza, la riforma del sistema contributivo e di governance della Cassa, la “liberalizzazione” dell’uso di lingue straniere negli atti notarili, una disciplina per il mandato in vista della futura incapacità e altro ancora.
Venerdì il corsivo redazionale che ha lanciato proposte per una riforma del sistema sanzionatorio e del procedimento disciplinare.
Oggi, con un articolo di Maria Grazia Trivigno, torniamo a occuparci di un tema che non dovrebbe essere divisivo, quello dell’abolizione dell’azione di restituzione. E lo facciamo attraverso un argomento sinora poco frequentato che riguarda le problematiche della circolazione di partecipazioni sociali con provenienza donativa.
Più volte dal Ministero di Giustizia sono giunte promesse di un radicale intervento sull’azione di restituzione (la riduzione dei termini di prescrizione sarebbe veramente ben poca cosa). Riflettere non solo sugli ostacoli alla circolazione dei beni immobili, ma anche a quelli delle partecipazioni sociali potrebbe servire ad aggregare sulla proposta il consenso dei ministeri economici.
Brevi appunti sulla provenienza donativa di partecipazioni sociali
Maria Grazia Trivigno, notaio
L’insofferenza verso il sistema codicistico di tutela dei legittimari vive una nuova stagione. Le criticità legate alla provenienza donativa si impongono infatti nella prassi quotidiana notarile con forza sempre maggiore e frequenza crescente anche con riguardo alle partecipazioni sociali.
Accade ormai spesso che l’acquisizione di family company da parte di fondi di private equity approdi al prevedibile scoglio costituito da precedenti trasferimenti a titolo di donazione aventi ad oggetto le partecipazioni della società target, siano esse azioni di S.p.A. o quote di S.r.l.
Il tema è assai caldo, si impone alla nostra attenzione con urgenza, tanto più tenendo a mente che il tessuto imprenditoriale e produttivo dell’economia italiana è rappresentato in larga parte da società con assetti proprietari concentrati nella sfera familiare. Di frequente la stipulazione di tali donazioni è dettata da valutazioni di natura fiscale o animata dall’intento di consentire il passaggio generazionale dell’impresa. Al momento dell’acquisizione da parte dell’investitore si pone dunque l’annosa valutazione circa i rischi in cui incorra tale terzo avente causa dal donatario, qualora le donazioni precedentemente effettuate possano risultare, in seguito, lesive della posizione di legittimari del donante che esperiscano vittoriosamente l’azione di riduzione e restituzione, ai sensi degli articoli 553 e 563 c.c. Notevoli potrebbero essere anche le implicazioni per le altre parti coinvolte, si pensi agli istituti bancari o agli intermediari che abbiano finanziato l’acquisizione, ricevendo a garanzia del finanziamento diritti di pegno sulle partecipazioni sociali acquistate.[1] Naturalmente, non si pongono particolari problemi qualora il decorso del termine ventennale dalla donazione o decennale dalla morte del donante abbia neutralizzato ogni rischio di restituzione, come più avanti precisato. Al di fuori di questa zona franca, tuttavia, sono molteplici le perplessità che l’interprete è chiamato ad affrontare.
Partendo dal principio, non pare revocabile in dubbio che le partecipazioni donate, in quanto beni mobili, siano astrattamente suscettibili di essere richieste in restituzione presso terzi aventi causa dal donatario, salvo che sussista la buona fede dei terzi.
Si segnala in proposito che, secondo l’interpretazione di parte della dottrina, per buona fede si dovrebbe intendere non l’ignoranza della provenienza donativa, quanto l’oggettiva impossibilità di prevedere il futuro esercizio dell’azione di riduzione e dunque la mancata conoscenza, da parte del terzo, di fattori che rendano concreto il rischio dell’esperimento dell’azione di riduzione nei confronti del donatario, sulla base della situazione del donante.[2] La mala fede dovrebbe ritenersi sussistente, in altri termini, qualora la riducibilità si prospetti come sopravvenienza certa o quanto meno probabile, tenuto conto della situazione patrimoniale e familiare del donante, nota al terzo, e del valore della liberalità.[3]
Dovrebbe pertanto escludersi che il rischio di restituzione sia attuale, ogniqualvolta l’acquirente non conosca quale sia la situazione patrimoniale del donante; qualora non disponga di sufficienti informazioni su altri eventuali negozi donativi posti in essere in precedenza dal medesimo, tanto ai fini della riunione fittizia, quanto al fine della imputazione ex se per ciascun legittimario di quanto ricevuto per donazione, quanto per ciò che concerne l’ordine della loro riducibilità. È perciò ragionevole sostenere che, in tali casi, sussista la buona fede e che i diritti degli aventi causa siano fatti salvi. La mancanza del possesso di buona fede, così intesa, si verificherebbe quindi in un numero molto limitato di casi.
Premesse tali coordinate minime, di seguito si cercherà di raccogliere, senza pretesa di esaustività, alcuni spunti di riflessione sul tema, già ampiamente dibattuto.
Le criticità maggiori, nell’ambito in esame, sono legate essenzialmente a due fattori: in primo luogo, la valorizzazione del bene donato richiede, in ottemperanza al dettato codicistico (artt. 747 a 750, richiamati dall’art. 556.c.c.) la sua attualizzazione al tempo dell’apertura della successione; in secondo luogo, il dinamismo delle partecipazioni sociali (e dei beni produttivi in generale) risente di vicende assai varie, che potrebbero giungere a stravolgere la consistenza stessa dei beni donati. Un esempio per tutti: il punto di arrivo delle acquisizioni a cui si faceva accenno in principio è spesso una fusione – diretta o inversa, con indebitamento – tra il veicolo costituito dall’investitore per perfezionare l’acquisizione e la medesima società acquisita. Ne consegue che la partecipazione richiesta con l’esperimento dell’azione di restituzione potrebbe risultare di molto differente da quella che era stata oggetto dell’originario contratto di donazione. Il legislatore non aveva certo in mente tale fattispecie.
Fattori, questi, che si sommano alle incertezze canoniche proprie delle provenienze donative. La verifica circa l’esistenza di legittimari lesi o pretermessi rispetto alla successione del donante, così come la quantificazione della lesione, sono infatti differite nel tempo e potranno essere effettuate solo al momento dell’apertura della successione, sulla base della valutazione dell’attivo ereditario, dei debiti ereditari e del donatum, previa imputazione delle donazioni già ricevute da ciascuno dei legittimari alla propria quota di diritto.
Sin dalle prime fasi delle negoziazioni nell’ambito di un’operazione di acquisizione, gli operatori del diritto sono dunque chiamati a soppesare la concreta suscettibilità di restituzione della partecipazione in oggetto, anche in considerazione dell’evoluzione attesa della partecipazione stessa.
I rimedi elaborati dalla prassi sono molteplici, alcuni per la verità non risolutivi, mentre la cornice normativa e giurisprudenziale non è sempre di grande conforto. L’articolo 563 c.c. ricomprende i beni mobili nell’alveo dell’azione di restituzione senza distinguere tra beni mobili e mobili registrati[4], senza apportare ulteriori correttivi. D’altra parte, non è dato rinvenire sentenze in materia; le pronunce di legittimità degli ultimi anni appaiono anzi sempre più propense ad individuare ulteriori spunti destabilizzanti correlati alla provenienza donativa. È il caso ad esempio della pronuncia Cass. Civ. 12 dicembre 2019, n. 32694[5], secondo cui sarebbe prospettabile il rimedio di cui all’art. 1460 c.c. a seguito della stipulazione di un contratto preliminare per il caso in cui sia stata taciuta una precedente donazione, potendo essa incidere sulla sicurezza, la stabilità e le potenzialità dell’acquisto. La Suprema Corte si è espressa, in tale vicenda, su una fattispecie inerente a beni immobili; la pronuncia presenta nondimeno profili estensibili anche alle partecipazioni sociali, in special modo qualora l’acquisizione non sia preceduta da un’esaustiva due diligence, come invece accade in caso di investitori professionali. In tali casi il promissario acquirente potrebbe quindi sottrarsi all’obbligo di stipulare il definitivo, adducendo proprio la mancata conoscenza della donazione pregressa.
Sulla base del vigente impianto normativo e sistematico, la stabilità dell’acquisto donativo rimane, allo stato attuale, unicamente legata al decorso del tempo, ossia del termine decennale dall’apertura della successione o, alternativamente, del termine ventennale di prescrizione dell’azione di restituzione – salvo, naturalmente, che venga proposta opposizione ai sensi dell’art. 563 c.c..
Per ciò che concerne il primo termine, lo spirare dei dieci anni per l’esercizio dell’azione di riduzione dalla morte del de cuius[6] sarebbe sicuramente preclusivo rispetto all’esperimento dell’azione di restituzione, di cui l’azione di riduzione costituisce il presupposto. Quanto al secondo, ugualmente potranno ritenersi prive di criticità le donazioni di partecipazioni sociali una volta che siano trascorsi oltre venti anni dalla donazione. In caso di donazioni di mobili non iscritti in pubblici registri, sono infatti salvi i diritti dei terzi acquirenti nel caso in cui l’azione di restituzione sia proposta dopo venti anni dalla donazione.[7] È appena il caso di ricordare, a seguito alla riforma del 2005, il dibattito sull’applicabilità del termine ventennale alle donazioni anteriori alla riforma stessa, a fronte di una successione apertasi dopo l’entrata in vigore della legge, in assenza di una disciplina transitoria.[8] Non sembrano esservi ormai dubbi sull’applicabilità della nuova disciplina anche alle donazioni anteriori alla riforma, come sostenuto anche dal Consiglio Nazionale del Notariato.[9] La questione atterrebbe, piuttosto, all’individuazione del dies a quo per il decorso del ventennio, soprattutto alla luce dell’introduzione dell’istituto dell’opposizione. Secondo una tesi più rigorosa, tale termine decorrerebbe dall’entrata in vigore della riforma; il citato Studio del CNN conclude invece nel senso più favorevole per la circolazione dei beni di provenienza donativa, per il cui termine ventennale dovrebbe decorrere dalla data della donazione.[10] La questione ha perso tuttavia progressivamente interesse approssimandosi il ventesimo anniversario dalla riforma.
In relazione alle donazioni per cui il termine decennale dall’apertura della successione e quello ventennale per l’azione di restituzione non siano ancora spirati, il rischio parrebbe invece più elevato. [11]
In generale, non costituisce una rassicurazione sufficiente per i terzi aventi causa dal donatario la complessa concatenazione dei presupposti per il vittorioso esperimento dell’azione di restituzione da parte del legittimario: l’attualità di una lesione in esito alla riunione fittizia; la riduzione dapprima delle eventuali disposizioni testamentarie, quindi delle donazioni dalla più recente alle anteriori, da parte del legittimario che, soddisfatte le condizioni di legge, abbia vittoriosamente esperito l’azione di riduzione (l’ordine di priorità dettato dall’art. 559 c.c. si riflette sulla proponibilità dell’azione di restituzione); la preventiva escussione del patrimonio del donatario. L’effetto recuperatorio e reale dell’azione di restituzione presenta poi una mitigazione ulteriore. Il terzo acquirente potrebbe liberarsi dall’obbligo di restituire i beni, mediante il pagamento dell’equivalente in denaro.[12] Tutto ciò può essere soppesato in termini pratici e probabilistici, ma non consente certo di escludere il rischio astratto di proponibilità dell’azione.
Si sono perciò affermati nella prassi operativa i noti rimedi, ciascuno dei quali presenta, in verità, alcuni rilievi critici che potrebbero renderlo inadatto nel caso specifico.
Un’opzione consigliabile consiste nella stipulazione del mutuo dissenso rispetto al contratto di donazione originario, con conseguente retrocessione del bene donato in capo al donante, essendone oramai pacificamente sostenuta la natura giuridica non di contrarius actus, ma di contratto con causa autonoma, volto a risolvere gli effetti di quello precedente. Il donante, ridivenuto proprietario ed estraneo potenzialmente da tempo alle vicende sociali, dovrebbe assumere la veste di alienante formale nell’ambito del trasferimento a terzi prospettato, assumendo altresì a proprio carico le articolate previsioni di obblighi, dichiarazioni e garanzie convenute nello SPA. Senza menzionare la duplicazione dei trasferimenti, dal donatario al donante; dal donante al terzo acquirente. D’altra parte, la stipulazione del mutuo dissenso potrebbe non essere possibile per ragioni pratiche, ad esempio in caso di morte del donante.
La rinuncia all’azione di restituzione da parte dei legittimari durante la vita del donante presenta l’evidente limite di non consentire l’individuazione di coloro che rivestiranno la qualità di legittimari nel momento dell’apertura della successione. Ancora meno risolutiva sarebbe poi la rinuncia alla facoltà di opposizione, così da precludere la sospensione del termine ventennale di cui all’art. 563, ultimo comma, c.c.; perché si possa rinunciare all’azione di riduzione occorre invece attendere l’apertura della successione.
Le alternative di natura obbligatoria, quali eventuali fideiussioni e polizze assicurative, ormai reperibili con facilità sul mercato, potrebbero essere onerose e, per risultare di una qualche utilità, dovrebbero essere poste a carico di soggetti terzi diversi dal donatario, già soggetto alla preventiva escussione imposta dal primo comma dell’art. 563 c.c.. L’estensione pattizia della garanzia per evizione, al fine di ricomprendevi anche eventi sopravvenuti rispetto alla stipulazione del contratto, poi, presenta il limite di attribuire una pretesa eminentemente risarcitoria al terzo acquirente a carico del donatario.
Qualche perplessità permane sull’ulteriore rimedio costituito dalla novazione causale del contratto di donazione in vendita,[13] (nella variante ingegnosamente prospettata di riqualificazione in patto di famiglia,[14] al fine di sottrarre per definizione il trasferimento alla collazione e all’azione di riduzione), trattandosi di contratti reali i cui effetti sono esauriti.
I suddetti rimedi non valgono, tuttavia, a dissipare una perplessità di fondo. La giurisprudenza riconosce che la pretesa del legittimario abbia natura di credito di valore e non di valuta.[15] Il mutamento di valore nel tempo potrebbe essere fisiologicamente imputato alla svalutazione monetaria; ma anche all’evoluzione del bene, specialmente se di natura produttiva o caratterizzato da fisiologiche oscillazioni di valore, si pensi ad un’azienda o ad una partecipazione societaria, come nel caso prospettato, il cui valore rispecchia appunto le consistenze patrimoniali e l’andamento aziendale. Proprio le partecipazioni sociali sono suscettibili di radicali mutamenti anche in un arco temporale molto breve. L’esponenziale incremento del loro valore potrebbe essere dovuto, in effetti, alle capacità gestionali del donatario o del suo avente causa, in virtù della sua natura di operatore professionale, così come a investimenti da quest’ultimo effettuati per sviluppare l’attività d’impresa. Appare ragionevole ritenere che il bene donato non sia cioè soggetto alla medesima evoluzione economica e a identiche oscillazioni di valore, qualora esso rimanga nella disponibilità del donante o del legittimario o, viceversa, entri nella disponibilità del donatario o di suoi aventi causa. Basti pensare ancora alle iniezioni di liquidità di frequente poste in essere dall’acquirente: l’ingresso di una società di gestione del risparmio quale nuovo investitore, ad esempio, consentirebbe di dotare le società in oggetto di nuovi mezzi, prima inimmaginabili, con ripercussioni sulla valorizzazione della partecipazione.
In alcuni casi si assiste al totale stravolgimento del bene donato, tanto da dubitare che esso conservi la medesima identità, e che si configuri piuttosto un fenomeno di surrogazione. Si pensi, a titolo esemplificativo, alle operazioni straordinarie che potrebbero interessare una partecipazione societaria; ad una trasformazione, con conseguente mutamento di disciplina (talvolta addirittura da società di tipo personalistico a società di capitali); ad una fusione per incorporazione in un ente di maggiori dimensioni a condizioni economiche particolarmente vantaggiose o addirittura ad una fusione propria; ad una scissione; ad un procedimento di quotazione. D’altra parte, non è sempre possibile prevedere il momento esatto in cui, nell’ambito dell’iter di acquisizione, tali operazioni straordinarie saranno perfezionate, tantomeno il momento della morte del donante; per cui la successione in questione potrebbe aprirsi prima o dopo di esse. In tale quadro, già articolato, l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, che deponeva nel senso di considerare le operazioni straordinarie alla stregua di una vicenda evolutivo-modificativa della società[16], ha iniziato a vacillare.[17]
Al fine di mitigare le perplessità esposte, potrebbero essere di qualche conforto alcune conclusioni a cui è giunta la giurisprudenza in tema donazione modale:[18] poiché l’onere incide sull’ammontare del trasferimento patrimoniale, riducendone il valore, occorre tenere conto dello stesso ai fini della riunione fittizia. In altre parole, ciò che costituisce oggetto di riduzione è l’arricchimento netto del donatario. Analogamente, dovrebbero tenersi in debita considerazione anche quanto investito dal donatario e/o dal suo avente causa e i costi sostenuti dal titolare della partecipazione. Tale elemento potrebbe contribuire a fornire un correttivo significativo e potrebbe indurre a ritenere remota l’eventualità che le partecipazioni debbano essere restituite in natura, lasciando sempre maggiore spazio a rimedi di natura meramente obbligatoria.
Alla luce di quanto indicato, può forse ritenersi giuridicamente corretto ed efficiente consentire la restituzione della partecipazione sociale in favore del legittimario leso o pretermesso, fino a concorrenza del valore a lui dovuto, in spregio all’affidamento dell’investitore, terzo acquirente in buona fede nel senso sopra indicato, ignaro della concreta situazione patrimoniale e familiare del donante?
Un ulteriore tassello è infine costituito dalla possibile presenza di clausole limitative della circolazione delle partecipazioni sociali nello statuto della società le cui partecipazioni sono state donate. Tali clausole infatti potrebbero porsi in contrasto con l’operatività reale dell’azione di restituzione, condizionando l’opponibilità verso la società del ritrasferimento della partecipazione in capo al legittimario.
In conclusione, l’effetto reale e recuperatorio dell’azione di restituzione presso terzi appare impossibile da attuare nel caso di partecipazioni societarie che abbiano subito nel corso del tempo un vero e proprio stravolgimento, nella consistenza e nel valore, anche per effetto delle acquisizioni da parte di investitori qualificati e fondi di investimento, nonché in ragione dalle complesse operazioni di riorganizzazione che spesso ne conseguono. Il bene di cui si chiede la restituzione sarebbe infatti una res alia rispetto a quella donata. In tali casi, appare fortemente dubbia l’esperibilità dell’azione di restituzione in natura contro gli aventi causa del donatario, ferma restando la tutela obbligatoria del legittimario; o quanto meno si dovrebbe ritenere che abbia remote probabilità di successo. In tale scenario la restituzione non sembrerebbe concretamente eseguibile.
Appare dunque abbastanza improbabile che i legittimari, che risultino eventualmente lesi, possano ottenere una pronuncia favorevole, che condanni alla restituzione in natura delle partecipazioni donate, in presenza di presupposti come la buona fede dell’acquirente, nell’accezione sopra illustrata, con conseguente effetto di salvezza, ai sensi dell’art. 563, secondo comma, c.c., trattandosi di beni mobili; nonché in presenza di evoluzioni societarie significative, già attuate o da attuarsi mediante operazioni straordinarie che interessino le partecipazioni a seguito dell’acquisto dal donatario.
Non possono chiudersi queste riflessioni se non con una nota di rammarico. Tarda infatti ad arrivare la soluzione di cui si discute già da qualche anno: la mutazione delle prerogative dei legittimari in un diritto di credito, seppure assistito da una garanzia di natura reale, con un’apertura parziale verso i patti successori rinunciativi.[19] E tarda anche ad arrivare il risultato minimo consistente nell’abrogazione della norma che prevede l’azione di restituzione pur da tempo promessa, non tanto al notariato che pure se ne è fatto promotore, ma all’efficienza della circolazione dei beni.
Note
[1] È appena il caso di notare che l’art. 561 c.c. dispone l’effetto liberatorio da ipoteche e pesi per i beni immobili, salvo gli effetti della trascrizione ai sensi dell’art. 2652 n. 8) c.c. e che la medesima disciplina è applicabile anche ai beni mobili registrati per effetto del primo comma, ultima parte, della medesima disposizione, mentre nulla è testualmente previsto per i beni mobili non registrati, per cui sarebbe necessario fare riferimento, per colmare la lacuna, all’art. 563 c.c..
[2] G. Capozzi, Successioni e donazioni, vol. I, Milano, 2015, 572; G. Cattaneo, La vocazione necessaria e la vocazione legittima, in Trattato Rescigno, 5, I, Torino,1997, 468 ss..
[3] G. Marinaro, La successione necessaria, in Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, Sezione VII, Napoli, 2009, 324 ss; L. Mengoni, Successioni per causa di morte, Parte Speciale Successione Necessaria, in Trattato di Diritto Civile e Commerciale, 2000, 322.
[4] Può ritenersi ormai maggioritario l’orientamento secondo cui le partecipazioni di s.r.l. siano beni mobili; anche qualora si riconoscesse alle stesse natura di beni mobili registrati, appare assai dubbio concludere per l’applicazione alle stesse della disciplina dettata per i beni immobili, in mancanza riferimenti normativi espliciti in tal senso. Il temine ventennale di cui agli artt. 561 e 563 c.c. è stato peraltro messo in relazione al temine utile ad usucapionem; penalizzante risulterebbe dunque il difetto di coordinamento con la disciplina dettata in materia di usucapione, poiché la riforma del 2005 non ha effettuato alcuna distinzione, in base alla natura dei beni, in merito ai diversi termini indicati dagli articoli 1161 e 1162 c.c..
[5] Per un commento si veda la nota a sentenza Provenienza donativa e tutela dell’avente causa dal donatario, di Raffaella Scotti, in Notariato, 2020, 5, 515. La Suprema Corte argomenta in merito all’operatività del rimedio generale dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. invece che del rimedio speciale di cui all’art. 1481 c.c. (che consente la sospensione del pagamento qualora il compratore abbia ragione di temere che la cosa possa essere oggetto di rivendica), mancando l’attualità della pretesa del terzo. Si riporta di seguito il principio di diritto: “In tema di preliminare di vendita, la provenienza del bene da donazione, anche se non comporta per sé stessa un pericolo concreto e attuale di perdita del bene, tale da abilitare il promissario ad avvalersi del rimedio dell’art. 1481 c.c., è comunque circostanza influente sulla sicurezza, la stabilità e le potenzialità dell’acquisto programmato con il preliminare. In quanto tale essa non può essere taciuta dal promittente venditore, pena la possibilità che il promissario acquirente, ignaro della provenienza, possa rifiutare la stipula del contratto definitivo, avvalendosi del rimedio generale dell’art. 1460 c.c., se ne ricorrono gli estremi”.
[6] Pur in assenza di norme specificamente dettate su tale prescrizione, è riconosciuta in maniera concorde l’applicabilità dell’ordinario termine decennale. Diversi sono gli orientamenti circa il dies a quo di tale termine, che secondo una tesi coinciderebbe con l’apertura della successione (Cass. n. 4230 del 1987; Cass. 11809/1997; Cass. 13407/2015); secondo una diversa tesi coinciderebbe con la pubblicazione del testamento lesivo (Cass. 5920/1999); secondo altra tesi sostenuta da ultimo dalle Sezioni Unite il termine decorrerebbe dalla data di apertura della successione in caso di donazioni e dal momento dell’accettazione dell’eredità nel caso in cui la lesione derivi da disposizioni testamentarie (Cass. SS.UU. 20644/2004).
[7] Il termine ventennale per i beni immobili decorre invece dalla trascrizione della donazione, come testualmente previsto dall’art. 563, primo comma, c.c.; G. Capozzi, ibidem, nota 1237.
[8] Secondo la tesi favorevole (v. per tutti A. Busani, L’atto di “opposizione” alla donazione (art. 563, comma 4, cod. civ.) e le donazioni anteriori: problemi di diritto transitorio, in Riv. Dir. Civ.,2006, II 13 ss; studio CNN n. 5809/C), la tutela dei terzi acquirenti dei beni di provenienza donativa dovrebbe risultare prevalente sulla tutela dei diritti dei legittimari. Altra dottrina ritiene di aderire al diverso orientamento, secondo cui i legittimari non potrebbero essere pregiudicati dal mancato assolvimento dell’onere di proporre tempestivamente opposizione alla donazione, poiché tale onere non era previsto prima della novella. Per tale ragione, per le donazioni pregresse il termine per proporre opposizione (e quindi sospendere il decorso del ventennio) decorrerebbe dall’entrata in vigore della nuova disciplina nel 2005. V. Gabrielli, Tutela dei legittimari e tutela degli aventi causa dal beneficiario di donazione lesiva: una riforma timida ma attesa, Studium iuris, 2005, 1129 ss.; M. Ieva, La novella degli articoli 561 e 563 c.c.: brevissime note sugli scenari teorico-applicativi, Riv. Not., 2005, 943 ss.; D. Rossano, Rinunzia all’opposizione alla donazione e suoi effetti, in Notariato, 2006, 575 ss.
[9] Tassinari, La “provenienza” donativa tra ragioni dei legittimari e ragioni della sicurezza degli acquisti, Studio n. 5859/2005.
[10] Diversamente, secondo la tesi più prudente, i legittimari dovrebbero essere rimessi nei termini ed il ventennio sanante dovrebbe decorrere dal 15 maggio 2005, data di entrata in vigore della nuova normativa, momento in cui l’opposizione sarebbe concretamente esercitabile per i soggetti legittimati ai sensi dell’art. 563, quarto comma, c.c..
[11] A fortiori per il caso in cui il giudice ritenga di aderire all’orientamento prudenziale secondo cui il dies a quo del termine ventennale dovrebbe decorrere dall’entrata in vigore della riforma.
[12] Tale valore è da quantificare non al momento dell’apertura della successione, come sostenuto in passato, ma al momento della pronuncia giudiziale (cfr. Cass. Civ. 23 ottobre 2001, n. 13003, dal testo della sentenza: “Ed, infatti, se è vero che per stabilire il valore dell’asse ereditario lasciato dal de cuius e accertare se sussista o non la lesione della legittima, deve aversi riguardo al momento dell’apertura della successione, come prescrive l’art. 556 del codice civile; è anche vero, tuttavia, che se non sia possibile per il legittimario ottenere la quota in natura, è necessario – per assicurargli l’esatto equivalente del bene, che come parte della sua quota avrebbe avuto il diritto di conseguire – liquidare a suo favore una somma di denaro pari al valore di detto bene, la cui stima deve essere eseguita con riguardo non a un momento anteriore a quello della determinazione del suo equivalente in denaro, ma alla data della pronuncia giudiziale, senza che da ciò derivi la violazione della menzionata norma dell’art. 556 del codice civile”.
[13] In senso favorevole F. Angeloni, Nuove cautele per rendere sicura la circolazione dei beni di provenienza donativa nel terzo millennio, in Contratto e Impresa, 2007, 946 ss., contra G. Amadio, Attribuzioni liberali e riqualificazione della causa, in Riv. dir. civ., marzo 2013, 508 ss., con pedissequa replica a tale ultimo contributo da parte di F. Angeloni, Ancora sulla novazione della donazione in vendita: optima repetita iuvant? in Dir. Giust., 2013. La tesi favorevole è altresì sostenuta da G. Santarcangelo, La novazione di donazione, in Notariato, 2011, 646 ss.,
[14] G. Amadio, op. cit.; A. Busani, Il contratto di “riqualificazione” della donazione di partecipazioni sociali in patto di famiglia, in Società, 5/2016, 535 ss.
[15] Cfr. Cass. Civ. 25 gennaio 2017, n. 1884.
[16] Ex multis Cass. Civ. SS.UU. 8 febbraio 2006, n. 2637.
[17] Il riferimento è in particolare a Cass. civ. SS. UU. 30 luglio 2021, n. 21970, che ha posto maggiormente l’accento sull’effetto estintivo e successorio della fusione.
[18] Cass. Civ. 7 aprile 2015, n. 6925.
[19] Dal sito del Senato si apprende che il disegno di legge delega per la revisione del codice civile S.1151, presentato al Senato nella seduta del 19 marzo 2019 è stato assegnato alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) in sede referente il 27 marzo 2019 e risulta in corso di esame in commissione (https://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/51488.htm). Per una disamina della riforma si rinvia a S. Delle Monache, La legittima come diritto di credito nel recente disegno di legge delega per la revisione del codice civile, in Nuovo Diritto Civile, 3/2019, che ritraccia nella riforma, così come formulata, l’esperienza di ordinamenti stranieri ed in particolare quello tedesco; si veda anche Raffaella Scotti, op. cit, (supra, nota 5). L’argomento è stato al centro di uno dei seminari della Convention 2020 del Notariato, come discusso anche su queste pagine: https://www.federnotizie.it/convention-2020-workshop-il-notariato-e-la-riforma-del-diritto-successorio/.
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