Le alienazioni di immobili degli enti ecclesiastici tra autorizzazioni tutorie e art. 12 del D.lgs. 42/2004.
PARTE PRIMA
Autorizzazioni tutorie
- Premesse
- Disposizioni del diritto canonico in tema di alienazioni
- La licenza dell’autorità competente.
PARTE SECONDA
Art. 12 del decreto legislativo n. 42 del 22 gennaio 2004
- Autorizzazione ad alienare
- Denuncia e diritto di prelazione.
PARTE TERZA
Coordinamento tra le normative
PARTE PRIMA
AUTORIZZAZIONI TUTORIE
PREMESSE
Prima di iniziare ritengo necessario sottolineare due punti che servono a comprendere l’importanza delle autorizzazioni tutorie inerenti il compimento di alienazioni o di atti peggiorativi del patrimonio posti in essere da enti ecclesiastici:
- la legge n. 222 del 20 maggio 1985 (legge di attuazione del protocollo di approvazione delle norme presentate dalla commissione paritetica in forza dell’accordo del 18 febbraio 1984 tra Stato Italiano e Santa Sede, relativa alla “Disposizione sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi”) dopo aver regolamentato la procedura per il riconoscimento agli effetti civili della personalità giuridica degli enti ecclesiastici, con l’art. 18 introduce una norma di conflitto, cioè stabilisce che, ai fini della invalidità o inefficacia dei negozi giuridici posti in essere da enti ecclesiastici, sono opponibili ai terzi le limitazioni dei poteri di rappresentanza e l’omissione dei controlli canonici che risultano dal registro delle persone giuridiche (dove sono iscritti gli enti ecclesiastici riconosciuti) o anche dal codice di diritto canonico. Quindi questa norma, per la validità dell’atto posto in essere dagli enti ecclesiastici, obbliga al rispetto di tutte le norme (comprese le autorizzazioni tutorie) previste dal diritto canonico, che potrebbero anche non risultare dai singoli statuti né dai registri civili. Questo spiega perché sia così rilevante comprendere bene il sistema delle autorizzazioni canoniche preventive al compimento dell’atto.
Quindi l’invalidità o inefficacia del negozio giuridico posto in essere da enti ecclesiastici può essere opposta a terzi quando si verifichi anche una sola delle seguenti condizioni:
a) – derivi da limitazioni dei poteri di rappresentanza o dall’omissione di controlli canonici che risultino dal codice di diritto canonico;
b) – derivi da limitazioni dei poteri di rappresentanza o da omissione dei controlli canonici, che risultino dal registro delle persone giuridiche;
c) – si provi che i terzi interessati fossero a conoscenza delle limitazioni dei poteri di rappresentanza o dell’omissione di controlli canonici.
Viceversa, l’invalidità o inefficacia canonica non può essere opposta a terzi quando si verifichino simultaneamente le seguenti condizioni:
a) – derivi da limitazioni dei poteri di rappresentanza o da omissioni dei controlli canonici, che non risultino dal codice di diritto canonico né dal registro di cui sopra;
b) – i terzi interessati non ne fossero a conoscenza (art. l8 legge 222/1985);
In pratica si può affermare che l’articolo 18 della legge n. 222/1985 estenda anche all’ordinamento civile le invalidità previste dal diritto canonico per i casi di inosservanza delle norme inerenti la rappresentanza ed i controlli tutori.
E’ importante comprendere che la volontà dell’ente ecclesiastico si forma attraverso un procedimento complesso del quale le necessarie autorizzazioni sono parte; pertanto queste costituiscono un elemento essenziale per la validità del negozio giuridico posto in essere e devono essere necessariamente preventive. Non è configurabile un negozio sospensivamente condizionato al loro rilascio.
Il presente intervento si limita alle alienazioni dei beni ecclesiastici regolamentate dai canoni dal 1290 e seguenti del codice canonico, con la precisazione che il canone 1295 oltre a stabilire che alla procedura prevista dai canoni precedenti (1291/1294) devono conformarsi gli statuti delle persone giuridiche, amplia l’applicazione dei citati canoni a qualunque altro affare che intacchi il patrimonio della persona giuridica peggiorandone la situazione. Quindi la disciplina inerente le alienazioni vale anche per queste altre operazioni, per le quali darò una breve definizione.
DEFINIZIONI
Fatta questa premessa, prima di iniziare a esaminare le autorizzazioni necessarie per gli atti dispositivi di beni immobili appartenenti ad enti ecclesiastici, introduco adesso alcune definizioni che serviranno a meglio comprendere il mio intervento:
1) Enti ecclesiastici civilmente riconosciuti: l’art.1 della legge 20 maggio 1985 n.222 sopra citata, stabilisce che gli enti costituiti o approvati dall’autorità ecclesiastica (quindi persone giuridiche canoniche sia pubbliche che private ed anche enti che non abbiano personalità giuridica nell’ordinamento della Chiesa), aventi sede in Italia, che abbiano fini di religione o di culto, “possono” essere riconosciuti con decreto del presidente della Repubblica (ora ministero dell’interno; dopo la legge n.13/1991 il riconoscimento non è più di competenza del presidente della Repubblica).
In realtà il riconoscimento malgrado il termine “possono” non è discrezionale perché l’art. 7 della legge 25 marzo 1985 n.121 stabilisce che… “la Repubblica italiana …continuerà a riconoscere la personalità giuridica degli enti ecclesiastici aventi sede in Italia eretti o approvati secondo le norma del diritto canonico …”.
L’art. 11 della IMA (Istruzioni in materia amministrativa anno 2005 della Conferenza Episcopale Italiana) suggerisce che “E’ conveniente che l’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto sia persona giuridica pubblica nell’ordinamento canonico anche se tale requisito non sia esplicitamente prescritto dalla legge 122/1985”.
La finalità di religione o di culto è presunta per enti che fanno parte della gerarchia della Chiesa[1] ad es. Chiese, Parrocchie, Diocesi, Capitoli etc., ed anche gli istituti religiosi e i seminari. A sensi dell’art. 16 della legge 20 maggio 1985 n.222 si considerano comunque con finalità di religione e di culto gli enti che esercitano attività diretta all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero, a scopi missionari, alla catechesi, all’educazione cristiana.
In ogni caso l’ente che chiede il riconoscimento deve avere ottenuto il previo assenso dell’autorità ecclesiastica competente, qualora la domanda non sia fatta direttamente da questa.
Ottenuto il riconoscimento, l’ente assume la qualifica di ente ecclesiastico civilmente riconosciuto e deve iscriversi nel registro delle persone giuridiche.
Il riconoscimento è importante perché l’ultimo comma dell’art. 6 stabilisce che “gli enti ecclesiastici di cui ai commi precedenti (quindi quelli già riconosciuti prima dell’entrata in vigore della legge 222/1985) potranno concludere negozi giuridici solo previa iscrizione nel registro delle persone giuridiche.
2) Persona giuridica canonica pubblica: (can. 116) sono insiemi di persone o di cose che vengono costituite dalla competente autorità ecclesiastica perché, entro i fini ad esse prestabiliti, a nome della chiesa, compiano il compito loro affidato in vista del bene pubblico. Le persone giuridiche pubbliche sono dotate di personalità sia per lo stesso diritto canonico sia per speciale decreto dell’autorità competente che la concede espressamente. Quindi sono tali o se previste dal codice canonico, o costituite come persone giuridiche pubbliche con speciale decreto, oppure se riconosciute successivamente come persone giuridiche pubbliche da speciale decreto. Tutte le altre sono private; tuttavia per speciale decreto dell’autorità competente, anche queste possono essere dotate di personalità.
In ogni caso gli statuti delle persone giuridiche che intendano ottenere la personalità giuridica canonica vanno approvati dalla competente autorità (can. 117).
3) Beni ecclesiastici: sono tutti i beni temporali appartenenti alla Chiesa universale, alla Sede Apostolica, e alle altre persone giuridiche canoniche pubbliche (can. 1257) e sono disciplinati dai canoni dal 1259 in poi (art.51 dell’IMA). I beni appartenenti alle persone giuridiche private sono retti dagli statuti delle stesse e non dai canoni dal 1259 e seguenti, a meno che non si disponga diversamente, fermo restando il diritto di vigilanza da parte della competente autorità ecclesiastica affinchè i beni siano utilizzati per gli scopi dell’ente ( canone 325).
4) Amministrazione: La persona giuridica canonica è amministrata dalla persona o dal collegio che la regge “immediatamente”, salvo disposizioni particolari e salvo il diritto dell’Ordinario di intervenire (can. 1279); infatti secondo il codice canonico spetta all’ordinario (canone 134: oltre il Papa e i vescovo diocesani anche tutti coloro che godono di una potestà esecutiva ordinaria) vigilare con cura sull’amministrazione dei beni a lui affidati nei limiti del diritto “universale e particolare”(can. 1276).
5) Gli atti di straordinaria amministrazione sono di norma: (a) quelli individuati dal codice canonico (b) quelli previsti da altra fonte che può essere (b1) la Conferenza Episcopale (canone 1277; in proposito la delibera CEI n. 37 ha individuato alcuni atti di straordinaria amministrazione), (b2) lo statuto dell’ente, che dovrebbe prevedere gli atti che eccedono l’amministrazione ordinaria, (b3) ma qualora lo statuto taccia in proposito spetta al Vescovo con decreto generale, udito il Consiglio per gli affari economici, determinare tali atti per le persone a lui soggette (canone 1281).[2]
Quindi per definire se sia di straordinaria amministrazione un atto di cui sia parte un ente ecclesiastico, non è sufficiente controllare il codice canonico, né il suo statuto perché il Vescovo competente potrebbe individuare atti che necessitano delle autorizzazioni tutorie non previsti dagli statuti.
Per la validità del compimento degli atti di straordinaria amministrazione è necessario il preventivo permesso scritto dell’ordinario (can. 1281) che è necessario anche per iniziare o contestare una lite davanti al tribunale civile in nome di una persona giuridica pubblica (can. 1288).
Il codice canonico non definisce i preliminari di alienazione di immobili come atti di straordinaria amministrazione né come atti peggiorativi del patrimonio; pertanto, qualora non comportino pericolo per il patrimonio dell’ente ecclesiastico, potrebbero essere stipulati sotto condizione sospensiva dell’ottenimento delle relative autorizzazioni. Tuttavia il Vescovo Diocesano competente, in forza dei poteri a lui riconosciuti dal secondo comma del canone 1281, potrebbe stabilire con decreto, udito il Consiglio per gli affari economici, che i preliminari rientrino tra gli atti di straordinaria amministrazione e pertanto che necessitano del preventivo consenso scritto dell’Ordinario. [3]
6) Atti peggiorativi: Non si tratta di qualsiasi atto che incida sulla consistenza del patrimonio, quindi costituisce una categoria che non coincide indistintamente con ogni atto di straordinaria amministrazione.
Si tratta di:
a) – atti che ineriscono il “patrimonio stabile” cui fa riferimento il canone 1291;
b) – atti che impediscono all’ente proprietario di disporre e utilizzare dei beni per lungo tempo, anche se non dovessero privarlo della proprietà, come la costituzione di diritti reali parziali, nonché la concessione del diritto di pegno e di ipoteca;
c) – atti che potrebbero comportare la perdita (come consistenza reale o come valore) di una parte del patrimonio stabile dell’ente. Ciò può accadere quando, per onorare il debito che sta per contrarre, l’ente non può che alienare parte del proprio patrimonio immobiliare oppure quando si accerti la definitiva impossibilità di incassare un credito che si configura come patrimonio stabile.
Qualora si tratti di assunzione di debiti da parte dell’ente ecclesiastico, la questione è più complessa; ad esempio nel caso di un mutuo non ipotecario (l’ipoteca è pacificamente un atto peggiorativo) con un istituto bancario; in quest’ultimo caso sarà necessario valutare caso per caso se l’assunzione del mutuo è peggiorativa. Don Lorenzo Simonelli segnala che vi sono casi in cui il mutuo potrebbe essere – addirittura – un atto migliorativo; è il caso del mutuo finalizzato all’acquisto di un bene in quanto l’operazione accresce il patrimonio, oppure il mutuo serva per la ristrutturazione di debiti pregressi (in questo caso potrebbe essere un atto ad impatto zero sul patrimonio stabile). Un altro caso che necessita di accurata riflessione è il caso di acquisto con pagamento dilazionato. [4]
7) I Controlli canonici sono principalmente:
- la licenza è un “decreto singolare” ex canone 48 (o autorizzazione, permesso, nulla osta) che deve essere rilasciato in forma scritta dall’autorità ecclesiastica cui la persona è soggetta (se l’autorità è il vescovo va sottoscritta dal Vescovo e dal Cancelliere che svolge funzioni notarili );
- il consenso: è dato da un organo collegiale, (di norma il Consiglio per gli Affari Economici- canone 492- di nomina Vescovile è composto di almeno tre fedeli esperti in economia e in diritto civile; il canone 537 prevede i CDAE anche per la parrocchia, i Superiori degli Istituti Religiosi hanno un loro Consiglio previsto dal canone 627 ) al Vescovo o ad un Superiore, per gli atti che questi compie o che autorizza; il consenso è preventivo alla licenza e va citato nella licenza;
- il parere: non ha carattere vincolante ed è emesso da organo consultivo che può essere il Collegio dei Consultori (canone 502) oppure lo stesso Consiglio per gli Affari Economici nei casi diversi da quelli inerenti atti (o per dare licenza per il loro compimento), nei quali il loro consenso è necessario.
DISPOSIZIONI DEL DIRITTO CANONICO IN TEMA DI ALIENAZIONI
In particolare trattano dei contratti e dell’alienazione dei beni ecclesiastici i canoni dal 1290 al 1298 del codice canonico.
Il canone 1290 contiene la cosiddetta “canonizzazione del diritto civile” in quanto dispone che ai contratti stipulati da enti ecclesiastici siano applicate le norme del diritto civile vigenti sul territorio se non contrarie al diritto divino. (le norme civili … “siano parimenti osservate per diritto canonico … e con gli stessi effetti”).
Il Canone 1291 è norma centrale nel regime delle autorizzazioni tutorie e fa parte delle norme che disciplinano l’amministrazione dei beni temporali della chiesa quindi i beni ecclesiastici; stabilisce che ”Per alienare validamente i beni che costituiscono per legittima assegnazione il patrimonio stabile di una persona giuridica pubblica, e il cui valore ecceda la somma fissata dal diritto, si richiede la licenza dell’autorità competente a norma del diritto”.
Quindi per l’applicazione di questo canone devono sussistere le seguenti condizioni:
– I beni devono far parte del patrimonio stabile: l’art. 53 dell’IMA definisce il patrimonio stabile:
i beni facenti parte della dote fondazionale dell’ente;
quelli pervenuti all’ente ove l’autore della liberalità abbia così stabilito;
quelli destinati a patrimonio stabile dall’organo di amministrazione; – i beni mobili donati ex voto.
Non fanno parte del patrimonio stabile i frutti , le rendite del capitale e degli immobili, ma anche quegli immobili donati che per volontà del donante siano destinati a smobilizzo per la riutilizzazione del ricavato.
- I beni sono parte del patrimonio stabile per legittima assegnazione cioè in forza di un atto giuridico dell’autorità ecclesiastica competente, come nel caso in cui siano indicati nel decreto di erezione, oppure tali per volontà implicita (ad es. se viene acquistato un edificio da destinare a casa religiosa);
- devono essere posseduti da una persona giuridica pubblica come sopra definita (che potrebbe non coincidere con l’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto); quindi se si trattasse di un ente ecclesiastico riconosciuto che non sia persona giuridica pubblica per il diritto canonico, saranno necessarie le autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto;
- il bene deve avere un valore superiore a quello fissato dalla Conferenza Episcopale con la delibera n.20 (in Italia euro 250.000); tuttavia se il valore fosse superiore a euro 1.000.000 oppure se si trattasse di ex voto donati alla Chiesa o di oggetti preziosi per il loro valore artistico o storico, oltre la licenza dell’autorità competente sarebbe necessaria anche l’autorizzazione della Santa Sede (canone 1292).
In mancanza anche di uno solo di questi requisiti, l’alienazione non è soggetta alla normativa dei canoni 1291-1295 e l’amministratore può porre l’atto liberamente, fatto salvo il caso in cui per decreto del Vescovo diocesano (o del Superiore religioso) l’alienazione sia ricondotta ad un’ipotesi di atto di amministrazione straordinaria. In questo caso serve l’autorizzazione dell’Ordinario del luogo (o del Superiore religioso) qualora il bene sia di proprietà di un ente soggetto al vescovo diocesano (o di un istituto religioso)
Qualora invece sussistano tutti questi requisiti serve la licenza dell’autorità competente a norma di diritto. L’autorità competente cambia in ragione delle caratteristiche soggettive dell’ente o del valore del bene.
La licenza dell’autorità competente.
Qualora l’ente proprietario sia la diocesi oppure una persona giuridica amministrata dal vescovo diocesano:
- se il bene vale meno di euro 250.000 non serve alcuna autorizzazione e il vescovo può alienarlo liberamente,
- se il bene vale più di euro 250.000 ma meno di euro 1.000.000 il vescovo deve acquisire il consenso del collegio dei consultori e il consenso del consiglio per gli affari economici della diocesi,
- se il bene vale più di euro 1.000.000 il vescovo deve acquisire la licenza della Santa Sede, dopo aver acquisito il consenso del collegio dei consultori e del consiglio per gli affari economici della diocesi,
- se si tratta di un bene prezioso di valore artistico o storico, oppure di un ex-voto, serve sempre la licenza della Santa Sede, dopo aver acquisito il consenso del collegio dei consultori e del consiglio per gli affari economici della diocesi.
Qualora il proprietario sia un ente soggetto all’autorità del vescovo diocesano:
- se si tratta di un bene prezioso di valore artistico o storico, oppure di un ex-voto, l’amministratore deve acquisire la licenza del vescovo diocesano, il quale può concederla solo dopo aver acquisito il consenso del collegio dei consultori e del consiglio per gli affari economici della diocesi, nonché la licenza della Santa Sede.
- se il bene vale più di euro 1.000.000 l’amministratore deve acquisire la licenza del vescovo diocesano, il quale può concederla solo dopo aver acquisito il consenso del collegio dei consultori e del consiglio per gli affari economici della diocesi, nonché la licenza della Santa Sede[5],
- se il bene vale più di euro 250.000 ma meno di euro 1.000.000 l’amministratore deve acquisire la licenza del vescovo diocesano, il quale può concederla solo dopo aver acquisito il consenso del collegio dei consultori e del consiglio per gli affari economici della diocesi,
- se il bene vale meno di euro 250.000 non serve alcuna autorizzazione e l’amministratore può alienarlo liberamente (il vescovo potrebbe però inserire tali atti tra quelli considerati di amministrazione straordinaria ai sensi del can. 1281; in tal caso si applica la normativa del can. 1281),
Qualora l’ente sia un istituto religioso di diritto diocesano oppure un monastero sui iuris:
- se il bene vale più di euro 1.000.000 oppure se si tratti di ex voto o ancora se si tratti beni di valore storico o artistico, l’amministratore deve osservare il diritto proprio, serve la licenza dell’ordinario del luogo nonché la licenza della Santa Sede, con la precisazione che questa licenza costituisce sempre certificazione dell’esistenza della licenza e del consenso previsti dal canone 638.
- se il valore del bene eccede la somma minima (250.000 euro) ma non la somma massima (1.000.000 euro) l’amministratore può alienarlo osservando il diritto proprio ma deve chiedere anche il consenso dell’Ordinario del luogo,
- se il valore del bene non eccede la somma minima (250.000 euro) l’amministratore può alienarlo osservando il diritto proprio senza chiedere alcun consenso dell’Ordinario del luogo,
Qualora l’ente sia un istituto religioso di diritto pontificio:
- se il valore del bene non eccede la somma minima (250.000 euro) l’amministratore può alienarlo osservando il diritto proprio senza chiedere alcun consenso dell’Ordinario del luogo,
- se il valore del bene eccede la somma minima (250.000 euro) ma non la somma massima (1.000.000 euro) l’amministratore può alienarlo osservando il diritto proprio senza chiedere alcun consenso all’Ordinario del luogo,
- se il bene vale più di euro 1.000.000 oppure se si tratti di ex voto o ancora se si tratti beni di valore storico o artistico, l’amministratore deve osservare il diritto proprio, non serve la licenza dell’ordinario del luogo ma serve la licenza della Santa Sede, con la precisazione che questa licenza costituisce sempre certificazione dell’esistenza della licenza e del consenso previsti dal canone 638.
In applicazione dell’art.37 della legge 222/1985, qualora il bene immobile appartenesse all’Istituto diocesano per il sostentamento del clero e avesse un valore superiore ad euro 775.000 (circa perché somma che va rivalutata con l’ISTAT come previsto dal successivo art. 38 della legge n.222/1985 ), ferma restando la licenza del vescovo con il consenso del suo consiglio per gli affari economici e con il consenso del collegio dei consultori, l’alienazione dovrà avvenire nel rispetto del diritto di prelazione a favore dello Stato, degli enti pubblici territoriali e dell’Università degli studi, pena la nullità dell’atto, a meno che acquirente non sia un altro ente ecclesiastico.
Infine se ad alienare fosse l’Istituto Diocesano per il sostentamento del clero e il valore del bene superasse l’importo di euro 3.000.000, a sensi art. 36 della legge 222/1985, per ottenere la licenza della Santa Sede occorrerebbe anche il parere della CEI.
La Cei con delibera dell’anno 2013 [6] ha chiesto a tutti gli Istituti diocesani per il sostentamento del Clero di inserire nei loro statuti la necessità del preventivo parere dell’Istituto Centrale per il sostentamento del clero per gli atti di alienazione o atti pregiudizievoli del patrimonio di valore superiore a euro 250.000.
Per la liceità dell’alienazione il canone 1293 chiede che si dimostri una giusta causa, l’esibizione di una perizia scritta, nonché l’osservanza delle eventuali ulteriori cautele prescritte dall’autorità competente. Ritengo tuttavia che non siano prescrizioni di competenza del notaio ma dell’autorità preposta al rilascio della licenza.
L’art. 53 della legge 222/1985 stabilisce che gli edifici di culto e le pertinenti opere parrocchiali di cui al primo comma (primo comma : Gli impegni finanziari per la costruzione di edifici di culto cattolico e delle pertinenti opere parrocchiali sono determinati dalle autorità civili competenti secondo le disposizioni delle leggi 22 ottobre 1971, n.865, e 28 gennaio 1977, n. 10, e successive modificazioni), costruiti con contributi regionali e comunali, non possono essere sottratti alla loro destinazione, neppure per effetto di alienazione, se non sono decorsi venti anni dalla erogazione del contributo. Il vincolo è trascritto nei registri immobiliari. Esso può essere estinto prima del compimento del termine, d’intesa tra autorità ecclesiastica e autorità civile erogante, previa restituzione delle somme percepite a titolo di contributo, in proporzione alla riduzione del termine, e con rivalutazione agli indici ISTAT.
Gli atti e i negozi che comportino violazione del vincolo sono nulli.
PARTE SECONDA: ART. 12 DEL DECRETO LEGISLATIVO N. 42 DEL 22 GENNAIO 2004.
Le autorizzazioni tutorie sin qui esposte vanno a sommarsi alla disciplina prevista per la vendita di beni appartenenti alle persone giuridiche private prive di scopo di lucro regolamentata dall’articolo 12, e dagli articoli dal 54 al 62 entrambi compresi del Decreto Legislativo n. 42 del 22 gennaio 2004.
L’art.2 del Decreto Legislativo n. 42 , definisce come beni culturali le cose mobili ed immobili che, ai sensi degli art.10 e 11 presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico …
L’art.10 fa una più articolata specificazione dei beni culturali e il primo comma li definisce come “le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza scopo di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico”. Dichiara inoltre (terzo comma) che sono beni culturali anche beni appartenenti a soggetti diversi da quelli sopra elencati ma soltanto quando interviene la dichiarazione di interesse culturale prevista dall’art. 13. L’ultimo comma dello stesso articolo 10 precisa che sono esclusi dalla disciplina dei beni culturali le cose la cui esecuzione non risalga ad oltre 50 anno se mobili e 70 anni se immobili, nonché altri beni estranei a questo lavoro.
Quindi se il bene appartiene a soggetti diversi da quelli indicati all’art.10 per essere definito culturale deve essere espressamente dichiarato tale, mediante un procedimento descritto negli artt. 13, 14, 15 e 16, avviato dalla Sovrintendenza, comunicato ai soggetti interessati ( proprietario, possessore, detentore) e infine trascritto nei Registri Immobiliari. Il Ministero tiene un elenco di tutti i beni culturali.
Se invece il bene appartiene ad uno dei soggetti indicati dall’art.10 e se mobile ha più di 50 anni e se immobile più di 70 anni, si introduce una presunzione di culturalità, con la conseguenza che il bene è comunque soggetto alla disciplina prevista per i beni culturali e può a questa sottrarsi solo in seguito a verifica di culturalità che abbia esito negativo. Tale verifica è regolamentata dall’art.12 (Verifica dell’interesse culturale) che al primo comma dice: ”Le cose indicate all’articolo 10, comma 1, che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni, se mobili, o ad oltre settanta anni, se immobili, sono sottoposte alle disposizioni della presente Parte, fino a quando non sia stata effettuata la verifica di cui al comma 2».
La verifica riguarda la sussistenza dell’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico e deve essere svolta dalle Direzioni generali centrali del Ministero per i beni e le attività culturali ( tuttavia è di norma delegata ai competenti direttori regionali a sensi DPR n. 173/2004) su iniziativa d’ufficio ( per evitare incertezze sul regime di tutela, e di norma quando si vuole che venga dichiarata la culturalità per assoggettare il bene alla tutela) oppure su richiesta formulata dai soggetti cui le cose appartengono (che hanno interesse a liberalizzare il bene da ogni vincolo).
La richiesta con la relativa documentazione è inoltrata alle Direzioni Regionali; copia dei dati è inviata per conoscenza alla Sovrintendenza competente.
Si precisa che, con riferimento all’alienazione, i beni non verificati sono soggetti ad un regime più rigoroso rispetto a quelli già verificati di interesse culturale. I primi, a sensi art.54 secondo comma sono inalienabili, mentre i secondi possono essere alienati se viene rilasciata l’autorizzazione ad alienare a sensi degli artt . 55 e 56. Quindi il proprietario, anche se consapevole che la verifica avrà un esito positivo, può avere comunque interesse a richiederla qualora intendesse alienare il bene.
Il Ministero, con Decreto Dirigenziale del 25 gennaio 2005 ha dettato i criteri e la modalità di presentazione delle richieste per la verifica a sensi dell’art 12. Pertanto i termini procedimentali potranno prendere avvio solo in seguito a richieste conformi a quanto stabilito nel decreto. La persona giuridica privata deve identificare gli immobili, descriverne la consistenza, compilare gli elenchi e le schede descrittive stabilite dal decreto. Esiste anche un modello informatico disponibile a tal fine.
Il procedimento di verifica deve concludersi nel termine di 120 giorni dalla data di ricezione della relativa richiesta. Se la pronuncia non dovesse intervenire nel termine il richiedente può diffidare il Ministero ad adempiere. Se il ministero non provvede nei 30 giorni successivi al ricevimento della diffida il richiedente può agire avverso il silenzio a sensi art. 31 del decreto legislativo 104/2010 [7] ricorrendo al TAR che provvede in camera di Consiglio con sentenza succintamente motivata entro 30 giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso; la sentenza è appellabile. In una prima stesura del testo dell’art.12, invece, si applicava l’art.27 del decreto legge 269/2003 e pertanto il silenzio del ministero equivaleva ad esito negativo della verifica.
L’art 16 del Decreto Legislativo n. 42 prevede che avverso il provvedimento conclusivo di verifica o avverso la dichiarazione di cui all’art.13 è ammesso ricorso al ministero per motivi di legittimità e di merito entro 30 giorni dalla notifica del provvedimento. Il Ministero decide entro novanta giorni dalla presentazione del ricorso.
Qualora la verifica desse un esito positivo, la qualifica di bene culturale diverrebbe definitiva. L’accertamento dell’interesse è un atto amministrativo che conferma la presunzione legale di culturalità; costituisce dichiarazione a sensi dell’art.13 ed il relativo provvedimento è trascritto così come avviene per la dichiarazione di interesse culturale della quale produce i medesimi effetti. Il Ministero non è tenuto a motivare la sussistenza di interesse particolarmente importante o eccezionale come è invece richiesto dall’art. 10 terzo comma.
Qualora invece non venisse riscontrato l’interesse, viene meno la presunzione legale di culturalità e le cose sono considerate non culturali, quindi definitivamente escluse dall’applicazione della normativa inerente i beni culturali.
Il giorno 8 marzo 2005 il Dipartimento per i beni culturali ha sottoscritto un accordo con la CEI per stabilire le procedure informatiche che gli enti ecclesiastici devono utilizzare per la richiesta di verifica.
L’accordo riguarda tutti gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti i quali quindi dovranno inoltrare le loro richieste di verifica per tramite dell’incaricato regionale per i beni culturali ecclesiastici che provvede a raccogliere tutte le istanze secondo una priorità stabilita dalla Conferenza Episcopale Regionale. Le richieste sono comunque sottoscritte dal legale rappresentante dell’ente al quale il Ministero farà riferimento per tutto l’iter del procedimento di verifica. Quindi non saranno prese in considerazione le richieste di verifica dell’interesse culturale provenienti direttamente da singoli enti ecclesiastici.
Il ministero con il concorso di regioni e altri enti pubblici territoriali, (art. 17) cataloga i beni culturali e coordina le relative attività. Il ministero ha poteri di vigilanza e di conservazione sui beni culturali.
Qualora valutato di interesse culturale, il bene è soggetto ai controlli ministeriali che ineriscono anche i procedimenti di autorizzazione per eventuali interventi edilizi.
Autorizzazione ad alienare
Come già sopra anticipato, il bene non ancora valutato è inalienabile (art 54 secondo comma); mentre l’eventuale alienazione del bene culturale va autorizzata dal Ministero a sensi degli artt. 54, 55 e 56.
Nel termine alienazione rientrano sia i trasferimenti a titolo oneroso (il codice menziona in modo espresso i negozi giuridici che “possono comportare l’alienazione dei beni culturali”, l’atto costitutivo di ipoteca e la permuta ma sono compresi anche gli atti di trasferimento derivanti da processi esecutivi) che a titolo gratuito. Ne sono esclusi i negozi che non producono effetti reali.
La norma ha lo scopo di consentire una valutazione sulle conseguenze che l’alienazione può avere in ordine alla conservazione e alla fruizione pubblica del bene. Gli elementi che assumono rilevanza nella disciplina sull’alienazione dei beni culturali sono due, entrambi preordinati a svolgere un ruolo di garanzia per l’assolvimento della funzione culturale ad essi connaturata. Si tratta da un lato delle condizioni richieste per il rilascio dell’autorizzazione, condizioni che si differenziano a seconda delle diverse tipologie di beni e in relazione ai soggetti titolari, dall’altro del valore delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione nei confronti del privato acquirente, che determinano, in una certa misura, le modalità di utilizzo del bene dopo la vendita.
La richiesta di alienazione deve essere corredata a sensi artt. 56 e 55, da:
a) indicazione della destinazione d’uso in atto;
b) programma delle misure necessarie ad assicurare la conservazione del bene;
c) modalità di fruizione pubblica del bene anche in rapporto con la situazione conseguente alle precedenti destinazioni d’uso.
Il provvedimento autorizzativo è rilasciato su parere del sovrintendente, sentita la regione e gli enti pubblici territoriali interessati; il provvedimento detta le prescrizioni e le condizioni in ordine alle misure di conservazione programmate e stabilisce le condizioni di fruizione pubblica del bene. L’autorizzazione deve essere motivata alla luce degli interessi pubblici sottesi e può essere rilasciata a condizione che dalla alienazione non derivi danno alla conservazione e alla pubblica fruizione.
Il Consiglio di Stato, con una recente decisione dell’8 aprile 2016 n.1396 (pubblicata sul CNN 27 maggio 2016) ha chiarito che le prescrizioni contenute nel provvedimento autorizzativo (nel caso il divieto di modifica di destinazione d’uso per svolgere attività commerciale nell’immobile culturale) non possono limitarsi ad esprimere un divieto, ma devono essere adeguatamente motivate con specifico riferimento al pregiudizio alla conservazione e alla fruizione pubblica del bene, ovvero all’incompatibilità con il suo carattere storico-artistico.
Tutte le condizioni e prescrizioni contenute nel provvedimento devono essere riportate nell’atto di vendita e sono trascritte nei registri immobiliari (la norma dice “su richiesta del sovrintendente”).
L’esecuzione di lavori ed opere di qualunque genere sui beni alienati è sottoposta a preventiva autorizzazione ai sensi dell’articolo 21, commi 4 e 5.
La medesima procedura va seguita anche qualora si voglia iscrivere ipoteca sul bene culturale oppure si vogliano compiere negozi giuridici che possono comportare l’alienazione dei beni culturali (art.56 comma 4 quinquies).
Unica eccezione all’applicazione di questa normativa è il caso di alienazione di beni culturali allo Stato, caso per il quale non si richiede alcuna autorizzazione (art.57).
Il DLgs. 42/2004 non prevede un termine di rilascio per l’autorizzazione; pertanto si dovrà fare riferimento alle norme generali che regolano il rilascio degli atti amministrativi. Escluso il silenzio assenso previsto dall’art.20 della legge 241/1990 che non trova applicazione nell’ambito dei beni culturali, dovrebbe applicarsi il termine generale stabilito dall’art.3 della stessa legge che prevede che i termini per gli atti amministrativi non possono superare i novanta giorni, termine entro il quale devono concludersi i procedimenti di competenza delle amministrazioni statali. Trascorso il termine si può diffidare il ministero ad adempiere e poi agire avverso il silenzio assenso a sensi art. 31 del decreto legislativo 104/2010 con ricorso al TAR il cui procedimento si svolgerà secondo la procedura prevista dall’art.117 dello stesso decreto[8].
Un’alienazione compiuta senza la preventiva autorizzazione è nulla a sensi dell’art 164 (Violazioni in atti giuridici.1. Le alienazioni, le convenzioni e gli atti giuridici in genere, compiuti contro i divieti stabiliti dalle disposizioni del Titolo I della Parte seconda, o senza l’osservanza delle condizioni e modalità da esse prescritte, sono nulli.2. Resta salva la facoltà del Ministero di esercitare la prelazione ai sensi dell’articolo 61, comma 2). Si ritiene trattarsi comunque di nullità relativa. [9]
Denuncia e diritto di prelazione
Dopo aver ottenuto l’autorizzazione per la vendita dei beni immobili culturali, è comunque necessario seguire la procedura prevista dagli articoli 59, 60 e 61, che prevede la denuncia, alla Sovrintendenza competente del luogo dove si trovano i beni, di tutti gli atti che ne trasferiscono in tutto o in parte la proprietà (art.59) nonché l’esercizio di prelazione a favore del Ministero o di enti pubblici territoriali interessati (artt.60 e 61).
Il procedimento autorizzativo e quello di prelazione sono autonomi e separati; il primo precede l’atto, il secondo lo segue. Il primo va motivato ed il secondo no. Ognuno si svolge in modo autonomo e senza sovrapposizioni. La procedura di prelazione va impostata prescindendo dall’ottenuta autorizzazione che si concentra solo sulla alienabilità del bene senza lederne la conservazione e la fruizione a favore della collettività.
La denuncia di cui all’art 59 (che nei casi di alienazione serve anche a consentire l’esercizio della prelazione prevista dall’art. 60) va presentata entro trenta giorni, dall’alienante, dall’acquirente ( se acquista con sentenza o nell’ambito di procedure di esecuzione forzata o fallimentari), dell’erede o dal legatario (il termine decorre per il primo dall’accettazione o dalla presentazione della denuncia di successione e per il secondo dalla comunicazione del notaio che esistono delle volontà testamentarie).
La denuncia deve contenere:
- I dati identificativi delle parti e la sottoscrizione delle medesime o dei loro rappresentanti legali, (affinché risulti che entrambe le parti siano consapevoli dei vincoli esistenti sulla “cosa” per effetto della dichiarazione di interesse culturale);
- i dati identificativi dei beni;
- l’indicazione del luogo ove si trovano i beni;
- l’indicazione della natura e delle condizioni dell’atto di trasferimento;
- l’indicazione del domicilio in Italia delle parti ai fini delle eventuali comunicazioni previste dal presente Titolo. (art. 59, c. 4).
L’obbligo di denuncia si ha anche in caso di cessione di una quota del bene o di trasferimento della nuda proprietà .
Per quanto riguarda l’applicazione dell’obbligo di denuncia in talune fattispecie dubbie quali l’iscrizione di ipoteca o anche la scissione, rimando ai numerosi studi del Notariato in argomento.
Ricordo brevemente anche la procedura del diritto di prelazione disciplinato dall’art. 60 a favore del Ministero, o in seguito a sua rinuncia, anche a favore di regione, o altri enti pubblici territoriali interessati. Il diritto spetta in tutti i casi in cui i beni culturali siano alienati a titolo oneroso, conferiti in società, o dati in pagamento a qualsiasi titolo, e va esercitato al medesimo prezzo o al medesimo valore attribuito nell’atto di conferimento.
Sono soggetti a prelazione anche le permute [10] gli atti dispositivi della nuda proprietà o di una quota di comproprietà (non del tutto pacifico). Dubbio è se anche l’assegnazione di bene culturale ai soci debba o meno essere soggetta a prelazione; in proposito ci sono state pronunce della Sovrintendenza che lo hanno escluso, in considerazione della natura stessa dell’assegnazione che costituisce una sorta di restituzione della quota.
L’effetto dell’atto dovrebbe essere l’integrale trasferimento della proprietà e non un atto costitutivo o traslativo di un diritto reale parziale, né un atto di natura dichiarativa.
Sono anche sottratti all’applicazione della norma gli atti a titolo gratuito o mortis causa.
La prelazione deve essere esercitata entro i sessanta giorni dalla data di ricezione della denuncia. Il provvedimento con cui si esercita la prelazione è notificato all’alienante e all’acquirente e la proprietà passa all’ente pubblico che ha esercitato la prelazione dalla data dell’ultima notifica.
In pendenza di tale termine l’atto rimane condizionato sospensivamente all’esercizio del diritto di prelazione e l’alienante non può effettuare la consegna della cosa (art. 61, c. 4).
Le disposizioni relative alle violazioni in atti giuridici è contenuta nell’art. 164 già citato, mentre le disposizioni relative alle violazioni in materia di alienazione, sanzionabili penalmente, sono contenute nell’art. 173 dello stesso D.Lgs 42/2004.
PARTE TERZA: coordinamento tra le normative.
La qualità di bene culturale per il diritto italiano è attribuita in forza del Decreto Legislativo 42/2004, secondo la disciplina sopra esposta.
Abbiamo anche visto come la caratteristica di “cosa preziosa per valore artistico o storico” sia rilevante anche ai fini delle autorizzazioni tutorie in caso di alienazioni o atti peggiorativi inerenti detti beni posti in essere da enti ecclesiastici perché tale condizione, a prescindere dal valore del bene, rende necessaria la preventiva licenza della Santa Sede (canoni 638 e 1292).
Il coordinamento delle due normative porta principalmente due problemi:
- le priorità temporali delle autorizzazioni;
- capire se i due concetti di “beni culturali” e «rebus pretiosis artis vel historiae causa», coincidono.
Queste questioni vennero affrontate dalla Congregatio Pro Clericis della Curia Romana (Lettera al presidente della CEI prot. N. 2007/1479) alla quale erano state presentate diverse richieste di precisazione[11]. La Congregazione nell’affermare che la licenza della Santa Sede sia un atto concettualmente e praticamente distinto dall’autorizzazione del competente ministero italiano, ha deciso di dare la priorità alle verifica di culturalità prevista dall’art. 12 e che soltanto dopo questa si sarebbe proceduto alla richiesta della licenza della Santa Sede.
Resta aperto il problema se l’alienazione di un bene ecclesiastico che sia culturale per il diritto italiano, richieda sempre la licenza della Santa Sede, oppure se questa va richiesta solo qualora il bene riveste un valore artistico o storico in base all’ordinamento della chiesa.
In proposito è interessante ricordare il quesito n. 487-2012/C del CNN.
La fattispecie era la seguente:
una parrocchia intendeva vendere una piccola Chiesa non più destinata al pubblico culto soggetta al vincolo culturale il cui valore era molto basso, valutato meno di euro 30.000, addirittura inferiore alla somma minima prevista dalla Conferenza Episcopale per la necessità della licenza diocesana. Siccome la vendita dei beni ecclesiastici di valore artistico o storico necessita sempre della licenza della Santa Sede prescindendo dal valore, il quesito riguardava proprio il problema di coincidenza o meno della culturalità secondo le norme del diritto civile e quelle del diritto canonico. Il dubbio si poneva perché il codice canonico non fornisce una definizione dei beni ecclesiastici di valore artistico/storico per la Chiesa, né fa alcun espresso rinvio all’ordinamento italiano per accertare l’interesse culturale del bene, limitandosi solo a prevedere una disciplina più severa per il rilascio delle relative autorizzazioni al solo fine di evitare che il patrimonio storico artistico degli enti ecclesiastici venga disperso.
Il codice canonico non individua un’autorità competente, né prevede alcuna procedura per riconoscere ai beni la qualifica di “cosa preziosa per valore artistico o storico”.
La risposta al quesito, pur riconoscendo che non ci sono precise regole al riguardo, riferiva l’opinione di chi ritiene che il codice canonico rinvii all’ordinamento italiano per l’accertamento dell’esistenza del valore storico artistico; con la conseguenza, seguendo tale indirizzo, di ritenere sempre necessaria la licenza della Santa sede per l’alienazione di beni ecclesiastici culturali. Ed in proposito ricordava infine quanto gli stessi organi della Chiesa avevano deciso in merito.
La Congregazione Pro Clericis riconoscendo una carenza in tale materia, auspicava “una precisazione autentica, la quale stabilisca che i Dicasteri, competenti a concedere l’autorizzazione ad alienare beni ecclesiastici, hanno il diritto–dovere di individuare, d’intesa con la Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, la preziosità di tali beni arti vel historiae causa e decidere sulla loro alienabilità”. Auspicando anche l’obbligo per gli enti ecclesiastici di predisporre l’inventario dei loro beni che potessero rientrare in questa categoria. E proseguiva: «…Tuttavia, in attesa della menzionata precisazione e per adottare nel frattempo una procedura tuzioristica per risolvere i casi in esame, a fronte della legge canonica e della legge civile, dovrebbe valere la regola secondo la quale l’ultima decisione sulla possibilità di alienare un bene culturale ecclesiastico competerebbe al Dicastero, al quale sia stato richiesto di autorizzarne l’alienazione, con l’obbligo per il Dicastero di interpellare la Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa concernenti la sua eventuale alienazione”.
Quindi il Notaio chiamato a ricevere un atto di vendita di un bene immobile costruito da più di 70 anni appartenente ad un ente ecclesiastico, per prima cosa deve far chiedere la verifica ex art.12 senza la quale il bene è inalienabile. In caso di esito negativo per alienare saranno sufficienti le autorizzazioni previste dal diritto ecclesiastico. Occorre accertarsi che non si tratti di edifici di culto costruiti con contributi regionali o comunali oppure che siano decorsi più di venti anni dalla erogazione del contributo per non incorrere nella nullità prevista dall’art 53 della legge n.222/1985.
In caso di esito positivo, dovranno essere ottenute le occorrenti autorizzazioni tutorie ecclesiastiche; ma oltre alle normali licenze ( che abbiamo visto variano in ragione del valore del bene e della natura dell’ente proprietario) e a prescindere dal valore del bene, è sempre opportuno chiedere anche la licenza della Santa Sede.
Contemporaneamente si dovrà chiedere l’autorizzazione alla vendita ex art. 56 del D. Lgs. 42/2004, corredata dalle indicazione della destinazione d’uso e dal programma delle misure per la sua conservazione.
Ottenute tutte le autorizzazioni tutorie e quella prevista dall’art. 55, e qui si ricorda che tutte queste autorizzazioni devono essere preventive, il notaio può ricevere l’atto di vendita che deve contenere le prescrizioni e condizioni contenute nell’autorizzazione, tuttavia l’atto sarà soggetto a condizione sospensiva dell’esercizio della prelazione spettante al ministero e agli enti pubblici territoriali, con il divieto di consegna del bene. A questo punto bisogna effettuare la denuncia prevista dall’art. 59 del D. Lgs. 42/2004 alla competente Sovrintendenza dei beni culturali, completa di tutti i dati richiesti dallo stesso articolo; è buona norma allegare alla denuncia anche copia dell’atto di vendita. Decorsi i sessanta giorni dalla data di ricezione della denuncia senza che sia stato notificato il provvedimento di prelazione, di regola si redige l’atto con cui si accerta il venir meno della condizione sospensiva e si può procedere con la consegna del bene. Nella prassi è in questo momento che si paga il prezzo, anche se la norma non prevede nulla al riguardo.
Resta aperto il problema della sovrapposizione tra la prelazione prevista dall’art. 37 della legge 222/1985 e quella prevista dall’art. 60 del D. Lgs. 42/2004.
Le fattispecie sono diverse: Se il bene non fosse culturale non si porrebbe il problema perché la seconda norma riguarda solo l’alienazione di beni culturali.
Ma se il bene fosse un immobile di interesse culturale bisogna capire quale ordine dare ai diritti di prelazione.
La prima (art. 37 legge n.222/1985) è norma specifica e riguarda solo un caso particolare: deve trattarsi di vendita da parte di un Istituto diocesano per il Sostentamento del Clero il cui oggetto sia un immobile anche non soggetto a vincolo culturale per un prezzo superiore all’equivalente di lire 1.500.000.000 (convertito in euro e rivalutato agli indici ISTAT) a favore di un soggetto che non sia Stato, comune, università degli studi, regione, provincia, altro ente ecclesiastico. La proposta va inoltrata al Prefetto che ha tempo sei mesi per comunicare all’istituto la decisione di acquisto; l’atto di vendita è stipulato entro i due mesi successivi. Nel silenzio del Prefetto l’istituto è libero di vendere alle condizioni indicate nella proposta.
Il decimo comma dell’art 37 stabilisce che le disposizioni non si applicano quando esistano diritti di prelazione sempre che i soggetti titolari li esercitino.
E’ pertanto da ritenersi che debba prima essere espletata la procedura di prelazione dettata per i beni culturali e in seguito, solo ove non fosse stata esercitata la prelazione, si potrà procedere con la notifica al Prefetto, che riterrei comunque dovuta perché tra i soggetti aventi diritto a prelazione c’è anche un soggetto non prevista dall’art. 60.
Ho provato a calcolare i tempi di una procedura di vendita di immobile costruito da più di 70 anni e posseduto da un ente ecclesiastico.
Occorrono 120 giorni per la verifica di cui all’art. 12 che, ipotizzando essere positiva, dovrebbe essere emessa nei termini; altrimenti in caso di silenzio, si potrebbero aggiungere i trenta giorni successivi alla diffida presentata al ministero e i tempi necessari per lo svolgimento del procedimento avanti al TAR competente a sensi art 117 del decreto Legislativo n.104/2010. Ovviamente se il bene fosse già stato valutato come culturale si supererebbe la fase di verifica.
Più difficile è prevedere i termini per l’autorizzazione ex art. 56 per la quale, come abbiamo visto, non è stabilito alcun termine di rilascio. Ipotizzando il silenzio dell’amministrazione i tempi potrebbe allungarsi di circa sei mesi.
Decorsi tali termini si può precedere con l’atto notarile di alienazione soggetto alla condizione del mancato esercizio del diritto di prelazione; pertanto, perché l’atto produca i suoi effetti si dovrà attendere il decorso dei sessanta giorni per consentire l’esercizio del diritto di prelazione come previsto dall’art. 60 del D.lgs. 42/2004.
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Intervento in occasione del Convegno telematico della Fondazione Italiana del Notariato del 9 giugno 2016.
Note:
[1] vedi in proposito l’allegato A all’IMA =Istruzione in Materia Amministrativa dell’anno 2005 emessa dalla Conferenza Episcopale Italiana.
[2] vedi anche art. 66 dell’IMA che indica dei criteri per l’individuazione degli atti di straordinaria amministrazione individuati dai Vescovi.
[3] Così come previsto dal Cardinale Angelo Scola per la Diocesi di Milano con decreto dell’anno 2014, dove si definiscono atti di straordinaria amministrazione le alienazioni o obblighi ad alienare o atti che trasferiscono a titolo oneroso o gratuito la proprietà di immobili di qualsiasi valore …
[4] vedi “L’alienazione dei beni ecclesiastici e i cosiddetti atti peggiorativi di Lorenzo Simonelli da “ex LEGE” anno 2013.
[5] Questa licenza costituisce sempre certificazione dell’esistenza della licenza e dei consensi previsti dal canone 1292.
[6] Promulgata dal Presidente della Conferenza Episcopale Italiana con decreto del 15 luglio 2013 e,pubblicata in data 31 luglio 2013 sul fascicolo n. 3 del Notiziario della Conferenza Episcopale Italiana, pp. 145-149, entrata in vigore un mese dopo la pubblicazione.
[7] (Art. 31 – Azione avverso il silenzio e declaratoria di nullità); 1. Decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo e negli altri casi previsti dalla legge, chi vi ha interesse può chiedere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere. 2. L’azione può essere proposta fintanto che perdura l’inadempimento e, comunque, non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento. È fatta salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti. 3. Il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione).
[8] Art. 117 – Ricorsi avverso il silenzio
- Il ricorso avverso il silenzio è proposto, anche senza previa diffida, con atto notificato all’amministrazione e ad almeno un controinteressato nel termine di cui all’articolo 31, comma 2.
- Il ricorso è deciso con sentenza in forma semplificata e in caso di totale o parziale accoglimento il giudice ordina all’amministrazione di provvedere entro un termine non superiore, di norma, a trenta giorni.
- Il giudice nomina, ove occorra, un commissario ad acta con la sentenza con cui definisce il giudizio o successivamente su istanza della parte interessata.
- Il giudice conosce di tutte le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario.
- Se nel corso del giudizio sopravviene il provvedimento espresso, o un atto connesso con l’oggetto della controversia, questo può essere impugnato anche con motivi aggiunti, nei termini e con il rito previsto per il nuovo provvedimento, e l’intero giudizio prosegue con tale rito.
- Se l’azione di risarcimento del danno ai sensi dell’articolo 30, comma 4, è proposta congiuntamente a quella di cui al presente articolo, il giudice può definire con il rito camerale l’azione avverso il silenzio e trattare con il rito ordinario la domanda risarcitoria.
6-bis. Le disposizioni di cui ai commi 2, 3, 4 e 6, si applicano anche ai giudizi di impugnazione.
[9] Così Giovanni Casu sullo studio civilistico CNN n. 5019/2004
[10] Consiglio di stato del 3 aprile 2000 n. 1889 che conferma un indirizzo già consolidato.
[11] così Lorenzo Simonelli in “L’alienazione dei beni ecclesiastici e i cosiddetti “atti peggiorativi” in ExLege 2013.

AUTORE

Notaio in Seregno e Milano. Dal 2007 al 2014 membro del Consiglio Notarile dei Distretti Riuniti di Milano Monza Lodi e Varese. Direttrice di FederNotizie dal 2004 al 2007 e in seguito redattore. Notaio Mediatore e dal 2010 Vicepresidente del CdA dell’organismo di mediazione ADR Notariato srl. Dal 2005 al 2011 docente alla Scuola del Notariato della Lombardia. Docente anche presso l’Università Bocconi di Milano, l’ODCEC e l’Università Cattolica. Ha curato un Codice del Notariato pubblicato dalla UTET e contribuito a numerose pubblicazioni in materia societaria, di mediazione e contratti di rete.